La teatralità del mondo, tra distopie e resistenze, offre spunti di riflessione per immaginare il futuro, come i grandi classici. Ma il teatro?
I promessi sposi e 1984 sono due romanzi profondamente diversi per stile, contesto e datazione, tuttavia entrambi affrontano il tema dell’oppressione di un potere senza limiti sulle libertà individuali e la liceità dei sentimenti. Don Rodrigo e il Grande Fratello, nel determinare l’abnegazione di un matrimonio che «non s’ha da fare»piuttosto che il divieto quale atto criminale della relazione tra Winston Smith e Julia, esercitano per motivi distinti, ma non dissonanti nella volontà di distruzione di un rapporto affettivo, l’esercizio di un potere dove le persone divengono pedine alla mercé di nefaste scommesse o impianti geopolitici per il controllo sociale. Manipolazione che nel primo caso appare marginale rispetto agli interessi dei massimi sistemi nel contesto storico affrontato (tra il 1628 e il 1630, quando in Europa imperversava la Guerra dei Trent’anni), ma basilare nel romanzo distopico di George Orwell, dove i rapporti di coppia sono sottoposti all’approvazione di un regime totalitario, ai soli fini di una procreazione che non conosce passionalità e sentimento. Entrambe le narrazioni prevedono una casta che tutto può al di là di ogni interferenza giudiziale piuttosto che di un controllo sociale. Il tutto, naturalmente, in nome di un ordine costituito da rispettare come di una salute pubblica, intesa come pax sociale, da salvaguardare. Nel capolavoro manzoniano si affronta un altro problema, di diretto interesse sanitario, non certo scevro da connotazioni legate allo sconvolgimento della vita quotidiana, ovvero quello della peste, probabilmente “importata” dai lanzichenecchi provenienti dalle zone di guerra e di passaggio sul territorio lombardo controllato dagli spagnoli. Un tema che per le sue implicazioni politiche e giudiziali porterà Alessandro Manzoni alla realizzazione di un altro racconto storico, La Colonna Infame, inizialmente pensato come capitolo di approfondimento ne I promessi sposi, ma divenuto poi un vero e proprio saggio autonomo sul periodo. Un racconto caro a Sciascia che vede la tragica vicenda del barbiere Gian Giacomo Mora, processato e condannato nel 1630 come “untore” della peste. La sua casa-bottega che si erigeva nei pressi delle Colonne di San Lorenzo di Milano fu distrutta con ciò che conteneva e al posto delle macerie fu edificata una Colonna dell’Infamia a monito per la popolazione, rimossa il 24 agosto 1778 per divenire nel ricordo un vergognoso simbolo dell’abuso di un potere giudiziario sorretto dalle malelingue, oggi degno nello stesso luogo della commemorazione di una scultura di Ruggero Menegon dentro il portico di un edificio di nuova costruzione.
Il ruolo del teatro
Se la difesa del sentimento tra uomo e donna al di là di ogni avversità ha come manifesto Romeo and Juliet e l’importanza dell’amore nei destini delle anime può rivalersi dell’esempio di Solveig nel Peer Gynt di Henrik Ibsen, il teatro ha più volte affrontato i temi inseriti nella cornice inquietante dei dispotismi illimitati dove la negazione dell’amore, l’annullamento dell’individuo nello scambio sociale e la discriminazione in nome di una virtuale salute pubblica hanno trovato dimora ideologica. Si pensi, tra i tanti lavori di cui ho scritto, lo spettacolo del 2012 Storia della Colonna infame firmato da Silvio Castiglioni, dall’opera del Manzoni e andato in scena al Crt Salone, piuttosto che La commedia della vanità, adattamento del capolavoro del Premio Nobel bulgaro Elias Canetti prodotto da Pacta nel 2019, dedicato all’annullamento dell’identità in un regime distopico ispirato ai totalitarismi del Novecento. Il teatro è stato in passato interprete anche del dissenso politico, come insegnano i Motus con il loro ciclo dedicato al controverso personaggio di Antigone, non scevro da richiami del Living Theatre, a partire da Let the sunshine in (antigone) contest #1 del 2009 () per continuare con Alexis. Una tragedia greca () del 2012 e Too Late! (antigone) contest #2 del 2015(/), un concept teatrale che esula dalla rappresentazione, al pari dell’esperienza artaudiana che ispirò Carmelo Bene, per incarnare lo spirito della rivolta contro il potere nel presente attraverso la figura mitografica narrata da Sofocle.
Diniego e assenza cognitiva nel presente
Già alle prime misure restrittive giustificate dal Covid 19 cominciavano a manifestarsi insofferenze e intolleranze verso possibili responsabili o “untori”, quali ad esempio i membri della comunità cinese a Milano come in altre città, pertanto decisi di riproporre con un nuovo pezzo dal titolo La Colonna Infame e i burocrati del male il contesto evidenziato da Alessandro Manzoni nel suo saggio sulla Colonna Infame, non senza porlo in relazione allo storico spettacolo di Silvio Castiglioni. Per il teatro ricordo essere stata una crisi inaspettata e in molti casi esasperata a Milano da interventi dell’amministrazione locale con evacuazioni e sospensioni immediate di spettacoli già programmati o in procinto di andare in scena già nella giornata di domenica 23 febbraio 2020. Il tutto in un quadro che sembrava riproporre le previsioni distopiche già accennate, con la negazione dei rapporti affettivi, l’imposizione delle mascherine ovunque e sempre, il distanziamento sociale, il lockdown. Quando a giugno tutto si riaprì pur con i dovuti limiti di contenimento, il primo spettacolo credo a livello nazionale ad andare in scena fu poco dopo la mezzanotte di lunedì 15 giugno Far finta di essere sani di Giorgio Gaber per la regia di Emilio Russo presso il Teatro Menotti di Milano, in molti credettero a un superamento della crisi e iniziarono a ripianificare gli spettacoli anche per la stagione successiva, fino alla nuova chiusura di fine ottobre. Una misura restrittiva che a molti sembrò ingiustificata, visto che nel periodo giugno-ottobre su quasi 48 mila spettatori, tutti tracciabili in virtù delle prenotazioni, ne risultò successivamente positivo al tampone solo uno, e che tuttavia portò molti operatori già a porre le basi per la costruzione di una piattaforma virtuale tipo Netflix che poteva divenire perpetua. Personalmente, ritenendo lo streaming senza platea la negazione del teatro stesso, uscii nel periodo natalizio con il pezzo L’importanza di chiamarsi pubblico con lo scopo di creare un punto di riflessione sul futuro dello spettacolo dal vivo.
Dopo le nuove faticose riaperture in concomitanza con la bella stagione e l’incedere della vaccinazione, pensavo che il decreto di luglio sul green pass in vigore dal 6 agosto scatenasse l’ira di almeno buona parte degli operatori teatrali, già penalizzati dall’esasperazione delle passate restrizioni, in solidarietà con chi è finalmente sceso nelle piazze a manifestare il proprio dissenso. Senza contare che il cosiddetto “lasciapassare sanitario” va ad agire in modo discriminante per quella fascia della popolazione che preferisce agire diversamente per la propria salute rispetto alla vaccinazione, che tale provvedimento contraddice l’Art. 3 della Costituzione nonché la risoluzione 2361 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa del 27 gennaio 2021 (ricorrenza topica), per cui «la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno è sottoposto a pressioni politiche, sociali o di altro tipo per essere vaccinato se non lo desidera», e di conseguenza il Codice di Norimberga redatto dopo la Seconda Guerra Mondiale proprio per impedire il ripetersi delle normative naziste. Invece, con mia sorpresa e sconcerto, ho letto sui social le affermazioni di molti responsabili teatrali, attori e registi di tutt’altro segno, autentiche dichiarazioni di odio e insofferenza per chi non si vaccina e protesta, fino al punto da ritenerlo un “untore” responsabile di eventuali nuove restrizioni che impedirebbero al settore di lavorare (e chi erano i responsabili delle misure considerate irrazionali l’anno scorso quando la vaccinazione non esisteva?) o addirittura giustificare sulla base di dichiarazioni di presunti virologi con specialità veterinaria il pagamento di qualsiasi intervento pubblico sanitario per coloro che preferiscono non vaccinarsi, dimentichi del fatto che l’inoculazione del Sacro Antidoto è gratuito per chi vi si sottopone poiché pagato anche dagli altri e che la sanità deve essere garantita a prescindere visto che si regge sulla tassazione di tutti i contribuenti, vaccinati o meno. Un autentico coup de théâtre che mi ha fatto riflettere sulla reale capacità di lettura del presente proprio da parte di coloro che, in qualità di agenti culturali e in coerenza con i valori che hanno sempre vantato di condividere ed esprimere attraverso il palcoscenico, avrebbero dovuto quantomeno dissentire di fronte a un simile decreto legislativo.
Il fatto di non cogliere alcun nesso tra l’attuale decreto governativo sul green pass e le discriminazioni sancite dalle leggi antirazziali del 1938 e 1939, che per ragioni legate a un impianto eugenetico negavano di fatto a una fascia di italiani di poter accedere a impieghi pubblici, esercitare come docenti nelle scuole e altro, significa non avere la minima capacità cognitiva rispetto alla gravità della situazione attuale. O, peggio, essere complici di un disegno che prevede l’isolamento di chi, per legittime ragioni personali come per la presenza di patologie pregresse, non intende sottoporsi sotto la sua responsabilità per le eventuali conseguenze all’inoculazione di un dispositivo genico definito subdolamente “vaccino” che, come hanno riportato diversi media, è fino al 2023 in fase sperimentale.
Illuminante da questo punto di vista l’articolo del 29 luglio di Carlo Freccero apparso online su l’Antidiplomatico dove, oltre a riportare le affermazioni dei filosofi Massimo Cacciari e Giorgio Agamben contro il discusso e discutibile provvedimento restrittivo, sottolinea le dichiarazioni di Vera Sharav, sopravvissuta all’Olocausto e attivista medica contro alcune pratiche della biomedicina, fondatrice dell’Alliance for Human Research Protection, per la quale, contrariamente alla senatrice Liliana Segre che trova folle l’accostamento tra il green pass e la Shoah, tale misura rappresenta il preludio a una forma di segregazione che passo dopo passo porta all’abnegazione totale della vita sociale. Il suo intervento riportato da Freccero è emblematico. La sopravvissuta afferma «Conosco le conseguenze di essere stigmatizzati come diffusori di malattie» e con lungimiranza rispetto al contesto attuale collega il nazismo all’impiego autoritario della medicina. Un’analisi che, viste le prospettive dichiarate da alcuni politici sull’intensificarsi dei provvedimenti, non posso fare a meno di condividere.
Le scelte di Punto e Linea Magazine
Confidando in un diffuso dissenso rispetto alla situazione presente ho deciso, come editore e direttore responsabile di una testata, di non seguire il finto teatro di chi sostiene questo regime terapeutico, poiché non lo ritengo degno di alcuna menzione dal punto di vista artistico. Non ha senso da parte di molti operatori del settore celebrare con spettacoli ad hoc la Giornata della Memoria come altro teatro civile e sociale, dove gli autori classici sono considerati modelli semprevivi per la drammaturgia del presente e i parallelismi anche tra secoli o addirittura millenni un fiore all’occhiello per la capacità performativa dei teatranti (si pensi a come è stato adattato a una lettura della società contemporanea un dramma dialettico come Hamlet), per poi aderire alla volontà discriminante del potere, riversando sui social il proprio veleno da kapò contro chi non vuole rischiare una trombosi nell’immediato o un tumore in futuro, in deroga a qualsiasi principio sulla libertà individuale per scopi che niente hanno a che vedere con la salute pubblica. Ecco di nuovo l’importanza del Manzoni, con la sua narrazione sulla Colonna Infame, e del mondo distopico di Orwell come di altri autori, nel raccontare un presente troppo simile a un torbido passato come a una proiezione fantapolitica.
Voglio riporre una speranza in similitudine con l’epilogo un altro capolavoro letterario distopico, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury: alle menti bruciate come i libri del romanzo imparati a memoria dai ribelli cercherò di contribuire, insieme a tanti novelli Montag, alla fondazione di una società diversa, dove la capacità cognitiva dei suoi componenti si rifiuta di cancellare l’umanità. Una culla di civiltà dove potrà di nuovo trovare residenza il teatro autentico della consapevolezza.