La violenza attraverso le nuove frontiere della comunicazione
«I fatti sono noti», avrebbe scritto nel proprio elzeviro uno dei grandi giornalisti dei primi ‘900, ma a noi preme ugualmente ricordarli.
Nei giorni scorsi la 31enne di Mugnano (NA) Tiziana Cantone si è impiccata con un foulard, tragico epilogo di una vicenda che l’ha vista protagonista, ormai due anni prima, di un video in cui faceva sesso con un uomo. Il secondo fatto è quello in cui una 17enne di Rimini che è stata violentata da un giovane all’interno di una discoteca. I denominatori comuni sono che in entrambi i casi le vittime sono state riprese in un filmato realizzato con uno smartphone, immediatamente dopo veicolati con la tecnologia che ormai un dispositivo di questo tipo ha a disposizione. Inoltre il loro stato di coscienza era alquanto alterato dall’abuso di alcol, e quindi nei fatti entrambe le vittime non erano in grado di intendere e volere.
In queste allucinanti vicende coesistono tutta una serie di elementi su cui sarebbe utile riflettere. In primis esiste un problema umano più generale che coinvolge variabili quali l’idea stessa di rapporto interpersonale, di rapporto affettivo nonché di amicizia, e purtroppo anche di esibizionismo. Come ha fatto un certa stampa definire amiche le giovani che hanno ripreso la ragazza riminese, sebbene ubriache anche loro, o il fidanzato/amante (a seconda di chi ha redatto l’articolo) colui che ha immortalato la Cantone è qualcosa che va ben al di là di ogni possibile qualificazione. Da un punto di vista semantico poi l’amicizia è qualcosa di molto diverso da un contatto informatico su di un social network o da una conoscenza interpersonale di una sera in discoteca.
Secondariamente, è utile ricordarsi sempre che le nuove autostrade tecnologiche, così come gli strumenti tecnologici di cui sopra, non sono un gioco ma richiedono un certo grado di maturità nel loro impiego. Per intenderci, è un po’ la metafora della zappa che usata con giudizio permette di lavorare la terra, ma nel caso contrario potrebbe anche trasformarsi in un’arma impropria. Un cellulare in questi casi dovrebbe essere utilizzato per chiamare i soccorsi e aiutare la vittima, e non riprenderla durante l’atto per poi mostrarne le immagini a tutti, perché oltre all’azione di per sé terrificante c’è anche un’incapacità di comprendere la stessa portata del mezzo impiegato perché si tratta pur sempre di un telefono.
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Purtroppo se bullismo, narcisismo-vouyerismo e malelingue sono sempre esistiti è pur vero che Facebook, Instagram e compagnia cantante, a cui aggiungiamo anche WhatsApp, inviano verso un numero enorme di contatti e pressoché all’istante tutta una serie di immagini, incluse quelle di Sexting (la sintesi di Sex e Texting, che indica spedire immagini e video più o meno sessualmente esplicite), come in questo caso. Se dalla festa di compleanno fino all’atto sessuale (perché farsi immortalare in questi frangenti dovrebbe essere esclusivamente una libera scelta, che dopo l’assunzione di alcol e/o di droga difficilmente lo può essere) tutto viene trasformato in un video sempre fruibile e condivisibile, dovremmo ragionare in maniera un po’ più seria su quando davvero conta in questa vita. Senza essere in possesso di un alfabeto minimo in grado di discernere sentimenti, amore e sessualità, ed è l’educazione che dovrebbe farsi carico di insegnarlo, si rischia l’incapacità di distinguere tra un momento di piacere reale, qualunque esso sia, dalla sua rappresentazione virtuale attraverso una ripresa, che in casi come questo può diventare una micidiale tagliola in grado di distruggere del tutto una reputazione, la propria. E poco importa se si cambiano identità, frequentazioni e luoghi di soggiorno, perché questo genere di marchi a fuoco si attaccano indelebilmente alla vittima come un vera e propria lettera scarlatta. Un effetto potenziato se queste ultime sono minori o donne, perché vivendo in un paese in cui il maschilismo italiota è ancora molto forte se il protagonista di certe cose è un uomo la cosa potrebbe addirittura apparire come un atto di virile vanto, ma se a farlo è una donna è sempre e comunque segno di infima moralità o di perversione.
Poi vi è un problema di accettazione tout court delle norme vigenti, e questo da parte di tutti, per intenderci le norme dei codici non sono da accettare o piuttosto da rifiutare a seconda dei nostri gusti ma sono obbligatorie per tutti. Da una parte i social vigilano spesso su aspetti marginali del problema (chi scrive aveva un account, Jimbo Gjeet, di fatto un avatar fumettistico, che è stato definitivamente sospeso perché nome di fantasia) ma si dimostrano del tutto impreparati nei confronti di violazioni ben più gravi, tanto da farci chiedere quanto siano realmente interessati a farlo. Inoltre, in nome di chissà quale idea deformata di diritto alla privacy, i genitori non controllano abbastanza i figli. Come ha affermato Lisa di Berardino, vicequestore aggiunto della Polizia Postale di Milano, controllare l’attività sui cellulari dei figli è un atto di tutela e prevenzione che i genitori devono accollarsi perché almeno finché vige un rapporto di patria potestà, previsto dalla legge, il rapporto tra i primi, su cui gravano precisi obblighi, e i secondi non è né può essere alla pari. Quest’elemento si ricollega a una sorta di anomia di fondo che attraversa il carattere italico, che sotto un altro aspetto può spingere a comportamenti o pensieri imbarazzanti nella maniera più libera possibile e senza mai la previsione di alcuna conseguenza. Il problema poi è che la Rete possiede i tempi brevissimi di reazione propri di un piccolo roditore e la memoria pressoché eterna degna di un pachiderma. In tal senso sono estremamente significative le parole del generale di brigata della Guardia di Finanza, Umberto Rapetto, profondo esperto dei crimini informatici e per 11 anni a capo del Nucleo Speciale Frodi Telematiche, secondo cui specie in questi casi il nemico è il tempo, nel senso che, se dal momento in cui viene postato un video, anche a seconda dell’interesse che sortisce (in questi casi decisamente morboso) viene a sua volta diffuso più o meno esponenzialmente da altri utenti, con un effetto deflagrante decisamente simile al cosiddetto vaso di Pandora. Esiste effettivamente un diritto all’oblio, contenuto nel regolamento generale dell’UE sulla protezione dei dati personali, recepito come elemento deontologico all’interno della Carta di Milano del 2013 a uso dei giornalisti, che stabilisce il diritto delle persone a essere dimenticate e non più sottoposte alla cosiddetta gogna mediatica a meno che vi siano reali esigenze di cronaca (si applica, per esempio, a detenuti che hanno scontato lunghe pene detentive e che successivamente fanno altre cose che nulla centrano con i reati commessi, ma in linea generale anche in casi come questi), e come già scritto, provider e motori di ricerca dovrebbero provvedere a eliminarne i riferimenti specifici di ogni singolo caso. Ma chi controlla i controllori? In subordine, come nel caso della Cantone, si è aggiunta una giustizia che le cambiato identità, l’ha tutelata per quanto possibile, ma, oltre a essere eccessivamente lenta (in questi casi dovrebbero esistere procedure di intervento urgente), non ha stabilito per il suo caso il suddetto diritto all’oblio, oltre ad averla ulteriormente gravata di spese legali per circa 20mila euro.
Inoltre anche la stampa purtroppo ha le sue colpe, come si può vedere proprio nel primo dei due casi (nel secondo, trattandosi di una violenza sessuale su minorenne, si è registrato quantomeno un filo di prudenza maggiore). “Si suicida dopo video hard finito in rete, quella banalità del male via web” (Il Messaggero), “Tiziana suicida dopo il video hot s’è impiccata con un foulard” (Il Mattino), “Video hard virali, suicida 31enne «Era finita in questo schifo e si sentiva impotente»” (Corriere.it) sono titoli esaustivi e tutto sommato neutri, qualcosa di ben diverso da “Tiziana Cantone si suicida dopo lo scandalo hot: due anni fa il video del sesso orale con l’amante” (Liberoquotidiano.it) che, al di là di un articolo piuttosto di circostanza, non lascia nulla all’immaginazione, specie a quella pruriginosa (quando in Rete, a ben vedere, esiste una realtà parallela interamente dedicata alla pornografia esplicita di ogni genere e gusto). Una dignità personale calpestata anche post mortem, quindi. E, in subordine, senza voler polemizzare con Selvaggia Lucarelli, che su “Il Fatto Quotidiano” (“Tiziana e la pistola cieca dei social” dalla prima pagina e pagina 6, giovedì 15 settembre) ha affermato che Tiziana potremmo essere noi, e la 17enne riminese nostra figlia, pur nel rispetto della memoria di Tiziana Cantone, mi sento di rispondere che non è affatto così perché ognuno ha un differente grado di consapevolezza e maturità, anche tra i più giovani. Credere che ciascuno è uguale a ogni altro significa banalizzare il problema, più o meno colpevolmente allinearsi a chi ritiene che tutte le donne potrebbero trovarsi in quella situazione (un pensiero neanche tanto velatamente maschilista), scaricando contemporaneamente le responsabilità degli individui sul mezzo tecnologico utilizzato. In estrema sintesi sostenere tre tesi improbabili facendo in ultimo cattiva informazione.
Sempre di questa fine estate è la storia accaduta a Melito Porto Salvo (Reggio Calabria), paese in cui si è scoperto che una ragazzina di 16 anni veniva abusata sessualmente da un gruppo di sette uomini da quando ne aveva 13 anni, mentre i genitori, al corrente dei fatti, hanno taciuto per vergogna e per il timore di dover essere costretti a cambiare paese, per loro rei di essere oggetto di discredito per essere i genitori di una figlia svergognata.
Aggiungendo al più turpe maschilismo anche un pericoloso grado di omertà, in quest’ultimo caso di dignità ferocemente calpestata il Web, i social e gli smartphone proprio non c’entrano nulla, ma la cattiva coscienza connotata dalla totale mancanza di rispetto per un altro essere umano, dato che ha contraddistinto anche gli altri due, c’entrano eccome.