A Park Avenue Armory la Performance Art si imborghesisce.
Bob Wilson è riuscito con la complicità di Marina Abramović a rendere la Performance Art accessibile ed accettabile alla borghesia. Attraverso uno spettacolo come ci si aspetterebbe, impeccabile e realizzato con maestria in ogni media (anche se l’utilizzo scenografico e drammaturgico dei video in maniera documentaristica ci è sembrato molto datato), siamo testimoni di una fagocitazione borghese di quella che è considerata la forma d’arte più trasgressiva, già a partire dal fatto di assistere ad uno spettacolo intitolato, ispirato, dedicato a e con la presenza di Marina Abramović (simbolo e non madre della Performance Art, come purtroppo alcuni la definiscono e considerano tale), eretto attorno ad una configurazione di teatro tradizionale con visione frontale. Forma nella quale Bob Wilson è, certamente, maestro in ogni dettaglio, ma che nemmeno in questa ghiotta occasione ha voluto abbandonare, lasciandoci con una strana sensazione: un pò come mangiare della zuppa con la forchetta. E questo è solo un assaggio. Come effettivamente dichiara la performer protagonista parlando di se e di Bob Wilson: “I am pure performance, and he is pure theater…“ ci appare altrettanto evidente che ciò non sia una formula applicabile reciprocamente. Vedere celebri rappresentanti della Performance Art essere visibilmente non a loro agio su una scena teatrale, apparendoci spaesati nell’esecuzione di una scrittura corporea che sbiadisce il loro naturale carisma e la propria capacità empatica col pubblico – Marina Abramović inclusa, è una conferma delle nostre prime impressioni. Questa carestia di presenza scenica è ancora più evidente nel momento in cui tre mostri sacri della scena, quali Willem Dafoe, Antony Hegarty e Antony Rizzi si manifestano e ci graziano con la loro Arte.
Sorge dunque una riflessione: l’utilizzo del proprio corpo, del proprio essere e dell’esposizione di se stessi come medium artistico (cosa che effettivamente la ‘matrona’ della Performance Art ci offre, raccontandoci la sua banale storia di vita, mostrandosi così più umana e simile ad ognuno di noi, dimenticando però il valore empatico nel suo esporsi, rendendosi tuttalpiù recettaccolo della nostra compassione) non è la stessa cosa che aver la capacità di tasportare in un’altra realtà – come dice la stessa Abramović: “The black box where the people are not real. It takes the reality away.“ – o come direbbe Deleuze, la capacità di riterritorializzarci in un nuovo luogo-spazio. Cosa che invece riesce a fare ad ogni acuto e fraseggio Antony, il quale attraverso la sua voce e la sua assise (come direbbero i francesi) degna di un lama tibetano, squarcia spazio e tempo facendoci cadere vertiginosamente su montagne russe che si ergono dal paradiso e volgono verso l’inferno e viceversa, senza un sopra e senza un sotto. Idem per Dafoe, quale Maestro di cerimonia e cantore ci proietta nel mondo dello humor e del cinismo ricordandoci, istante dopo istante, quanto l’autoderisone sia cosa meravigliosa. E Antony Rizzi, purtroppo a nostro avviso sottoutilizzato, che con semplici e comuni movenze stereotipate riesce a far risuonare lo spazio intorno a lui, rammenttandoci che la parola mouvant è intrisa di senso.
Restiamo completamente basiti per quanto ci appare un pesce fuor d’acqua in tale contesto Marina Abramović, ancor più in quanto memori dell’intensità che ci ha pervaso nel corso della performance The Artist Is Present eseguita dall’artista al MoMA nel 2010. La potenza empatica del suo sguardo pronto ad accogliere quello di chiunque avesse voluto sedersi su quella sedia posizionata di fronte a Lei, qui si perde e si disperde: tra i suoi occhi e noi il nulla. Un corpo che diviene assente, passivo, semplice esecutore meccanico di comandi. Corpo intimidito, lo si osserva dondolare in scena, a tratti asincrono con i tempi musicali e registici, in un muoversi rigido e goffo, rivestito da abiti autobiografici. Marina Abramović, in veste di attrice anonima, sembra privata – consciamente – del proprio battito cardiaco, la sua Anima d’artista è resettata, incapace di comunicare e trasmettere sensazioni all’osservatore. Sarebbe questa la morte di Marina Abramović? Noi lo definiremmo più un omicidio premeditato, perpetrato da una esiziale scrittura drammaturgica.
L’utilizzo nella regia di performance ‘amputate’ di alcuni performer presenti nel cast ci sono apparse aneddotiche. E leggibili, forse, ad alcuni addetti ai lavori, affatto valorizzate, decontestualizzate e perciò sminute. Ad esempio, la performance Stair Falling di Kira O’Reilly che vede la stessa O’Reilly ricoperta di trucco bianco tipicamente wilsoniano, privata dalla vicinanza dello sguardo del pubblico e della Durata che l’originale contiene e che in quel contesto genera identificazione empatica, qui ci viene sottratta la possibilittà di percepire l’impronta che il gesto performativo traccia, genera, e lascia sulla pelle dell’artista (per altro medium fondamentale per questa performer) nell’atto di cadere, svuotando e banalizzando il suo contributo. Trasformando quello che originariamente è un’opera d’arte in un gadget, da sfruttare come icona di dubbio gusto per valorizzare un oggetto di produzione di massa. Ancora più sconcertante è la finta masturbazione eseguita da uno dei performer, messa in risalto attraverso le dinamiche drammaturgiche con l’affiancarsi della Abramović a quest’ultimo. Ma un performer non dovrebbe utilizzare il proprio corpo come mezzo artistico?! Perchè usare un posticcio mal fatto? Forse una referenza politically correct a Seedbed di Vito Acconci? Oppure al filosofo dell’Antica Grecia Diogene di Sinope, detto il Cinico? Che disse masturbandosi in pubblico: “Raggiungerei la pace perfetta se potessi soddisfare nello stesso modo con una frizione il mio stomaco quando si lamenta per la fame”. Noi non siamo riusciti a capirlo, ma ciò poco importa. In ogni caso, ci assumiamo la responsabilità nell’affermare che molto probabilmente nè uno nè l’altro avrebbero apprezzato questo sketch goliardico.
Ci si sente pertanto sollevati e contenti quando ci viene annunciato, tra patemi d’animo e pseudo sedute psicanalitiche della Abramović – condotte da uno psicanalista tanto bizzarro quanto eccezionale come Dafoe, che fortunatamente trasforma situazioni patetiche in scene esileranti – che Ulay non ha assistito allo spettacolo nonostante le aspettative della protagonista. Tutto sommato sono due ore (abbondanti) piacevoli e solo la presenza di Hegarty e Dafoe vale il prezzo del biglietto. È un buon spettacolo, d’altronde da Bob Wilson non ci si può aspettare altro, perché sa applicare come un grande chef la sua decennalle ricetta alla perfezione, senza prendere alcun rischio. Ma sorge spontanea una domanda: perchè fare uno spettacolo relativo ad un universo così distante dalla semantica teatrale? E che per di più ci sembra mostrare delle lacune evidenti di conoscenza, non solo nella sintassi del linguaggio proprio alla Performance Art ma anche alla sua stessa storia. E ancora: perchè questi performer che in altri contesti si proclamano anticonformisti, antiaccademici, liberi pensatori, ecc. hanno accettato di giocare alle pusillanimi marionette nelle mani del marionettista più amato dai borghesi? Noi abbiamo le nostre e personali risposte, se avete la fortuna di assistere a questa riunione di celebrità vi auguriamo di essere abbastanza liberi di trarre le vostre, senza che il fumo negli occhi vi abbia accecato.
Ernesto Zuedele
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The Life and Death of Marina Abramović uno spettacolo di Bob Wilson
Con Marina Abramović, Antony e Willem Dafoe
Park Avenue Armory
New York, 643 Park Avenue, NY 10065
Dal 12 al 21 Dicembre 2013