Il romanzo in questione è la prosecuzione naturale di un importantissimo lavoro letterario contemporaneo, quel “Romanzo criminale” (a sua volta seguito dal prequel “Io sono il Libanese”, che racconta l’antefatto di uno dei tre protagonisti principali dei questa saga, ndr), divenuto prima film e poi telefilm. Qui si narra dell’epigono d’uno dei capi della banda precedentemente descritta, soprannominato il Samurai, che, nella sfida per diventare il nuovo boss del crimine della capitale, si scontra con integerrimi esponenti delle forse dell’ordine, sicuramente etici, ma forse non sempre così perfetti, servitori dello stato che hanno compreso come funzionano i nuovi giochi della mala romana, e non solo di quella. Un trama principale che si innesta ad altre non meno significative in cui si muovono squallidi politici, attricette di dubbia provenienza, delinquenti di mezza tacca, laidi usurai, monsignori poco cristiani e molto altro ancora, a comporre un puzzle probabilmente più simile a un verminaio da cui parrebbe difficile uscire.
Pubblicato nel 2013, nonostante alcuni passaggi a tratti disturbanti non tanto per la violenza descritta ma per l’idea di mercificazione in cui l’essere umano può cadere, lo si può considerare un valido esempio di eccellente letteratura probabilmente non soltanto di genere. Dopotutto De Cataldo è uno dei più significativi autori italiani contemporanei, mentre Bonini, che è un ottimo cronista, si è occupato di importanti inchieste, tra le quali, per esempio, quella dedicata al carcere americano di Guantanamo. Quindi, almeno fino a un mese fa, l’uomo della strada mediamente informato poteva legittimamente considerare “Suburra” (il nome è quello del sottoproletariato urbano residente nel popoloso quartiere posto tra i colli Quirinale, Viminale ed Esquilino nell’antica Roma, ndr) l’ennesima opera di finzione, probabilmente ispirata anche a qualche fatto reale. Poteva, beninteso.
Volendo stabilire tra la narrazione, fiction, e la realtà lo stesso rapporto tra Achille e la tartaruga, perché tutto sommato anche “Romanzo criminale” aveva praticamente raccontato ascesa, apice e caduta della cosiddetta banda della Magliana, quest’ultima coinvolta tra l’altro non solo in crimini quali spaccio, estorsione, lenocinio e il restante bagaglio proprio di un’organizzazione criminale di strada, ma anche sospettata di un coinvolgimento attivo in sequestri eccellenti (Aldo Moro ed Emanuela Orlandi, per esempio), legami con la mafia e altro ancora, parafrasando il romano antico Giulio Cesare, alea acta est. Il dado è tratto.
Massimo Carminati, soprannominato il Nero (guarda caso proprio come uno dei protagonisti di “Romanzo criminale”, sul grande schermo interpretato da Riccardo Scamarcio, ndr) per un suo passato nei Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari, un gruppo terroristico neofascista responsabile di oltre una trentina di omicidi e coinvolto nella strage di Bologna dell’80, ndr) nonché affiliato proprio alla banda della Magliana, è il principale protagonista dell’inchiesta Mafia Capitale. Oltre al fondamentale lavoro della magistratura, grazie anche all’attività dei media, si sta infatti scoperchiando un ginepraio non meno mefitico, e assai marcio, almeno quanto quello raccontato dal romanzo in questione.
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Il paragone tra le zone grigie, quella descritta nel lavoro letterario e quella reale, una totale interconnessione difficilmente districabile tra la realtà delle persone oneste a ogni livello e quella criminale più incallita e spietata, è forse il primo elemento che balza all’occhio, probabilmente solo la punta di un iceberg per un serio problema etico che riguarda tutti, forse non solo nella capitale. La cosiddetta terra di mezzo descritta da Carminati, e raccolta dalle intercettazioni telefoniche, indica infatti una specie di bolla in cui ognuno si rinchiude per muoversi verso i propri obiettivi, dal mantenimento delle rendite di potere, per esempio, per i politici o gli amministratori i quali, mutatis mutandis, agiscono con la stessa basica tattica del tossicodipendente irrecuperabile alla ricerca della dose. Un play without rules, un gioco senza regole del tutto spurio da qualsiasi possibile mediazione etica, che, da quanto sta emergendo, vede anche la comparsa di ‘ndragheta, collegamenti con il mondo delle cooperative, ex terroristi neri e rossi in realtà riciclatisi in criminali comuni ma forniti di rispettabilità pubblica, palazzinari senza scrupoli, politici dalla soglia di corruttibilità piuttosto bassa, e addirittura possibili legami con alcuni ambienti religiosi (almeno da quanto emergerebbe dalle intercettazioni di Paolo Oliverio, faccendiere vicino a realtà ecclesiastiche, che vantava anche legami con la Guardia di Finanza).
Qualcuno ha affermato che siamo solo all’inizio, anche se non si capisce bene di che cosa, visto che da Tangentopoli, anno di grazia 1992, a oggi abbiamo visto un periodico susseguirsi di scandali di ogni genere e specie, dalla compravendita di parlamentari allo scandalo successivo al terremoto dell’Aquila, solo per fare qualche esempio.
Comunque vadano le cose, la personale, e temo piuttosto magra consolazione, è che ancora una volta la parola scritta della narrazione, tra letteratura e giornalismo, ha visto giusto e ben prima che i fenomeni si palesassero in tutta la loro evidenza.
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