Parlare di teatro e sovvenzioni pubbliche sembra voler rispolverare alcune questioni annose che hanno anche polemicamente diviso nel passato vasti comparti del settore stesso. Tuttavia, le contestazioni e scontri delle ultime settimane sembrano voler preludere a un cambiamento di rotta, a una coesione interna che non si era mai vista nel passato. Cosa è avvenuto?
Un esempio della singolarità dei tempi è il rapporto tra il dibattito di qualche anno fa, in occasione della Prima della Scala appena ristrutturata nel dicembre del 2004, a quanto sta avvenendo oggi, dove addirittura il M.° Daniel Baremboin, al debutto della Walkiria wagneriana poco prima della sua esecuzione, cita l’Art. 9 della Costituzione Italiana in sinergia con le contestazioni e i presidi pacifici della piazza. Solo sei anni fa infuriavano le polemiche sui destinatari dei fondi pubblici, di cui il teatro milanese operistico era beneficiario, insieme a molti altri templi teatrali italiani, e non solo musicali. Si discorreva, e si litigava, su quanti soldi dare e a chi, a dispetto, per esempio, di certi circuiti, come l’Off Teatro, o il mondo musicale legato al jazz, che spessissimo restavano a bocca asciutta. Divari preoccupanti, certamente, che parevano non allarmare i più, in fondo convinti che i vili denari “da foraggio” fossero da destinarsi solo ai palazzi e ai salotti buoni. Chi era dentro, bene, chi era fuori, s’arrangiava, senza rendersi ottusamente conto che la legge della tagliola, prima o poi, può toccare tutti. Com’è poi avvenuto.
Per il 2011, alle porte, il F.U.S. (Fondo Unico per lo Spettacolo) subirà un drastico taglio del 30%, che per la prosa si somma all’altro taglio, quello del 9% già calato nel novembre di quest’anno. E senza essere delle Cassandre o degli Spurinna, l’augure che ha predetto la morte di Cesare, a seguito di ciò è facile intuire la probabile chiusura di diversi teatri o, nei migliori casi, mancate ristrutturazioni degli stessi, oltre naturalmente all’altra tragica conseguenza, ovvero la definitiva conclusione di molte esperienze professionali, a partire da chi sta sul palcoscenico fino alle maestranze, e anche l’interruzione di altrettanti percorsi di formazione. Ergo, perché mai studiare da attore, o da scenografo, se poi il lavoro manca a chi attore e scenografo lo è già?
E’ la prima volta che professori d’orchestra finiscono in cassa integrazione, la stessa che ha flagellato e flagella, da decenni, la classe operaia, e la massima “A chacun son tour” (A ognuno il suo turno) non può né deve essere una giustificazione.
Alla base di un’operazione di così bassa macelleria c’è un’idea di fondo ben precisa quanto malsana, tutto sommato mai davvero nascosta, ossia che la cultura è un bene superfluo. Quando si inserisce la musica, dall’opera al rap, il teatro, tutto, la letteratura, insieme alle altre sei arti, nel bidone della differenziata denominato “tempo libero”, si giunge inevitabilmente a due considerazioni. La prima è che tutto il resto deve essere “tempo prigioniero” (follia!) e, la seconda e drammatica, è che l’arte è qualche cosa di superfluo, quindi sacrificabile in nome dei bilanci senza troppi complimenti. Tutto questo naturalmente senza mai pensare che anche la produzione culturale abbia un indotto, e quindi una ricaduta positiva, sul resto, a dimostrazione del fatto che anche con la cultura, per dirla piatta, si possono “fare i soldi”.
E’ ridicolo ascoltare certi campioni dell’in-cultura al momento leadership, quando parlano a vanvera di investimenti pubblici, da noi come in altri paesi. Le municipalità della liberista America, Broadway, un caso per tutti, foraggia diligentemente un mondo che, in alcuni casi, non potrebbe reggersi autonomamente sulle proprie gambe, data la magnificenza di alcune produzioni. Idem per la più vicina Francia, all’oggi punto di riferimento in tutta Europa sotto il profilo jazzistico, letterario e fumettistico, o per la Germania nell’ambito della musica classica. A meno che, naturalmente, il finanziamento diventi in toto uno strumento di scambio, o meglio, vantaggiosa arma di ricatto del tipo “io ti finanzio, ma tu cosa mi dai?”, relegato a mero kickback (mazzetta), per orientare scelte politiche, e non solo. Ma in quel caso, è bene ricordarselo, diventerebbe materiale per la giustizia penale.
Quite a few doctors can advocate drugs to deal with the discomfort and irritation associated super cialis professional it. Usually, when a man is sexually aroused, the brain sends to the penile. davidfraymusic.com generic levitra online Julie Chrzanowski Denver Colorado tadalafil sample houses one of the best therapists in the business. So it has cialis order levitra kinds of treatments.
Un altro tasto dolente è la conservazione dei beni artistici e archeologici italiani, stimati come il 50 % del patrimonio dell’intera umanità. Ma davanti ai recenti crolli di Pompei, una iattura stile telenovela che parte in realtà già da alcuni anni, con la realizzazione di un ristorante all’interno di una domus pompeiana (sic!) e alle successive “considerazioni” del ministro Bondi, si capisce che le strade intraprese sono in realtà le peggiori che si potessero scegliere. In realtà forse oggi più che mai è necessario aprire una riflessione su una percezione generale di cultura all’interno della nostra stessa società, rispetto anche al livello raggiunto dagli italiani. Intristisce pensare che al 150° anniversario si debba ancora fare i conti con una Storia che dopo gli anni della formazione scolastica si scioglie come neve al sole. L’inno nazionale di Goffredo Mameli, per quanto non sia questo capolavoro, è relegato a mero jingle delle partite della nazionale di calcio, Garibaldi è uno dei personaggi meno noti, la Resistenza, ma allo stesso modo anche il Fascismo e la storia contemporanea, buchi neri, e il tricolore è un pezzo di stoffa a tre colori, appunto.
Se gli anziani hanno dimenticato (o vogliono dimenticare?), e gli adulti sono occupati a fare altro (forse per nascondere la loro ignoranza?), non c’è da stupirsi che un discreto numero di giovani, non necessariamente senza scolarizzazione, non conosca il nostro percorso di provenienza. E a queste condizioni, di quale cultura si può parlare?
Etimologicamente, il termine “cultura” deriva dal latino cultus, ovvero che tiene a colere, coltivare, da cui l’appellativo di colto. In sostanza, la coltivazione che dà i suoi frutti dà luogo metaforicamente, per opzione morale, al valore di crescita di una civiltà, che prevede quindi innanzitutto l’inseminazione per i posteri, oltre che per i presenti, di quei riferimenti dell’intelletto, come dello spirito che possono garantire un’effettiva evoluzione della società umana. In pratica, la cultura, in tutte le sue manifestazioni specifiche – includendo, parlando di tagli, il fronte universitario e più in generale quello scolastico – è il sale endemico dell’umanità e della sua esistenza. Quando un ministro della Repubblica si permette quindi di dichiarare che “con la cultura non si mangia”, commette contemporaneamente due assurdi concettuali, anche indipendemente dai benefici che gl’investimenti in tale direzione potrebbero dare, come è già stato sopra dimostrato, a livello economico. Innanzitutto, linguisticamente, sarebbe come dire che con i frutti non ci si nutre. In secondo luogo, più propriamente, si sostiene che non si vive con la vita. Errore dialettico o scelta di campo? L’impressione è che in realtà il cibo culturale risulti quanto meno indigesto ad alcuni massimi sistemi del Paese, al punto da essere avversato con i tutti quei mezzi che una cattiva politica può regalare. In pratica, tale dichiarazione comporta un invito al suicidio collettivo delle coscienze, nel segno di un’incomunicabilità di fatto che mitiga l’aberrazione dietro un inconsapevole consenso. Come a dire, Orwell docet!
In questo clima natalizio, l’augurio migliore che si possa fare per l’anno che verrà è quello d’intravvedere finalmente anche in Italia una valorizzazione dell’impegno culturale, visto come risorsa dell’umanità e non come nemico di un qualsivoglia sistema di dubbia matrice, in virtù soprattutto di un risveglio della percezione metacognitiva. Buon 2011, dunque! Nel segno della partecipazione…
(Claudio Elli & Alex Miozzi)
Comments (2)
Comments are closed.