Lella Costa è l’esempio di come si può essere non soltanto attori. Attrice e autrice, e anche doppiatrice, la sua carriera si snoda tra il palcoscenico, il cinema e la televisione. Un percorso pluridecennale che l’ha vista recentemente protagonista al Teatro Carcano di Milano, fino al 29 gennaio, con i “monologhi ontologici” di Arie.
Potremmo iniziare dal premio “Una vita per la musica”, che l’Associazione Amici del Conservatorio ti ha conferito nel 2010.
Oltre che graditissimo e inatteso, questo premio mi è anche servito come spunto: infatti mi ha suggerito l’idea di uno spettacolo antologico, “Arie”, appunto, che avesse la musica come filo conduttore, visto che nella motivazione si sottolineava la grande affinità tra la mia scrittura di palcoscenico e i tempi e i ritmi propri cella musica. E d’altra parte i miei testi più che dei copioni li considero degli spartiti,delle partiture da eseguire sempre tenendo conto delle pause,dei cambiamenti di tono e volume, della metrica e dell’intonazione. Perché, come cantava il grande Jannacci, “ci vuole orecchio”.
Ma, al di là della musica, che per tua stessa ammissione hai messo quasi da subito in un angolo (ma sua madre è pianista, ndr), potresti raccontarci come hai iniziato, e come continua, questo tuo invidiabile percorso artistico.
In realtà la mia storia professionale nasce mentre frequentavo l’università, un inizio che potremmo definire tardivo, data l’età, attraverso un percorso di psicoterapia critica, provando a interpretare in prima persona uno dei casi che ci avevano presentato.
Mettersi alla prova, quindi?
Sì, il mio inizio è stato quello. Quando poi ho capito che la cosa mi interessava veramente, vista la mia condizione di studentessa ventenne che faceva mille lavoretti per mantenersi, l’unica scuola possibile per me era l’Accademia dei Filodrammatici.
Presso cui insegnava anche l’indimenticato Ernesto Calindri…
Esattamente! Ma fin dall’inizio, da quello che era il mio primo percorso accademico, avevo capito che non avrei fatto l’attrice nel senso tradizionale del termine. Interpretavo quello che scrivevo, un po’ come hanno fatto anche Moni Ovadia, Paolo Rossi, Marco Paolini, e in seguito anche Ascanio Celestini.
Attrice, autrice e interprete, quindi.
Certo. La libera scelta di una forma di scrittura contemporanea, in cui l’attore sceglie i temi da portare in scena.
Che suggerimento daresti a chi vuole abbracciare la tua professione?
Il primo suggerimento è quello di fare di testa propria! A parte gli scherzi, un tempo c’erano quelle che venivano considerati i mestieri sicuri, per così dire, mentre oggi, come dimostra l’attualità, praticamente quasi tutte le professioni sono a rischio. Quando ci si interroga se fare o meno gli attori, bisogna prima di tutto chiedersi se c’è la vocazione, e in quel caso, perché non provare? Poi è necessario darsi degli obiettivi, e preferibilmente un tempo entro cui cercare di raggiungerli, un periodo che naturalmente varia a seconda delle possibilità e delle condizioni di ognuno di noi. Va detto che alle volte chi si arrende e getta la spugna non lo fa solo perché manca il talento!
Una preparazione che passa attraverso lo studio, quindi…
Di sicuro, ma se da una parte è fondamentale la preparazione attraverso lo studio, con il tempo è da evitare di diventare i cosiddetti professionisti dei corsi, quelli che seguono tutte le scuole possibili ma che alla fine non si mettono mai alla prova.
E per chi recita per diletto? Anche il teatro amatoriale sembra godere di un exploit…
Ci possono essere esperienze amatoriali di ottimo livello, anche a seconda del talento di chi le affronta, ma è sempre necessario distinguere fin dall’inizio un’attività di tipo dilettantistico, nella sua migliore accezione del termine, da una professionale. Un conto è una sana passione, un altro un lavoro.
Che idea ti sei fatta del ruolo che di recente il teatro sta assumendo, rispetto ad altri mezzi di diffusione culturale e, al contempo, anche di intrattenimento? Pensiamo al teatro per ragazzi.
Da una parte il teatro per i più giovani, inteso come propedeutico, va benissimo, in particolar modo chi è al di sotto dei 15 anni, persone che si affacciano a questo mondo per loro spesso nuovo. E’ la scoperta di qualcosa di unico e irripetibile, sottolineo, a patto che ci sia una propedeutica, una preparazione necessaria rispetto a quello che si va a vedere. sildenafil levitra In fact, they do not know that where they can reap dollars per click. It captures administration rights of your computer and makes generic viagra without visa it dysfunctional. These are the serious side effects and you should be well aware about these in order to neglect the symptoms in which you may need proper attention and treatment of doctor. without prescription viagra Paul Pasko also has several years experience in software http://mouthsofthesouth.com/events/personal-property-auction-of-linda-wayne-little-pics-here-flyer-covid19-guidelines/ generic tadalafil cheap design, computer programming, and
website management. Dall’altra è del tutto impossibile pensare a un teatro dell’obbligo.
Ti riferisci alle spedizioni di scolaresche mandate a teatro la mattina?
Personalmente le considero una mezza follia! (ride) Non fraintendetemi, il teatro è qualche cosa di alchemico, che possiede una sua liturgia, ed è meglio per tutti, anche per chi recita, andarci la sera. Anche perché il pubblico, a differenza di altri canali, come la televisione, per esempio, non può essere così omogeneo.
In molti ti considerano una milanese da esportazione.
Grazie!
Prego! Qual è il tuo giudizio su questa città?
Qui devo fare qualche passo indietro. La Milano degli anni della mia formazione era una città un po’ diversa da adesso. Era seria e sobria, ma al contempo anche ironica, oltre che accogliente e tollerante. Una città con una vocazione fortemente progettuale, e per citare due esempi basta pensare all’esperienza del “Piccolo” di Strehler dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, al ventennato, tutt’altro che facile, del cardinal Martini.
Oggi invece?
Nonostante i problemi che si sono avvicendati negli anni, anche in quest’ultimo periodo, con nuove difficoltà non solo a livello nazionale, europeo e mondiale, si ha avuto l’impressione di una città bloccata, in affanno, in difficoltà persino a realizzare le infrastrutture necessarie per l’Expo 2015, come per esempio le metrò.
Anche una fuga verso un certo provincialismo?
Anche. Valori culturali che prima erano di tutti, come l’appartenenza a un luogo e una certa identità culturale, sono diventati strumenti di lotta politica. Un modello del genere, quello che vorrebbe obbligare, per esempio, l’uso del dialetto, che di per sé è un forma espressiva nobile, serve solo a dividere le persone e a costruire barriere tra di loro. In una nazione poi che di dialetti ne vede migliaia!
E sul fronte solidarietà, come siamo messi?
Non così bene. Premesso che io sono e resto laica, ma quando vedo esperienze come la “Casa della carità” di don Virginio Colmegna, o la “Comunità Nuova” di don Gino Rigoldi, da una parte non posso che stare dalla loro parte, e dall’altra vedo che c’è una calo di attenzione rispetto ai più deboli, come anche rispetto ai problemi dell’integrazione.
Ti ricordiamo sul palco a festeggiare la vittoria del nostro neo-sindaco Giuliano Pisapia, che hai sostenuto durante la campagna elettorale. Dopo che per anni abbiamo avuto una classe politica con serie difficoltà a comprendere, e quindi anche di far capire, le complessità di un mondo che cambia, credi che tiri una nuova aria?
Sì, lo credo, lo spero e mi sembra proprio che si percepisca. Anche se il momento è particolarmente difficile e perfino doloroso,mi pare che Milano stia tornando ad essere quel grande laboratorio di esperienze,idee e progettualità che era stata fino a una ventina di anni fa.