E’ inevitabile che alla scomparsa di qualcuno, nemmeno così inaspettatamente, i più si scoprono all’improvviso suoi seguaci, in un fenomeno che, con un neologismo, potremmo definire apocrifia da fan. Al di là di questo incipit, che personalmente ritengo doveroso soprattutto nello specifico caso, ricordare l’artista Pino Daniele è sia facile che, al contempo, complesso.
Il facile è scritto e ricordato nell’ampia letteratura giornalistica dal giorno della sua scomparsa, che ha trasversalmente attraversato, e attraversa, le cronache dei media, dalla stampa nazionale e locale, oltre ai palinsesti radiofonici ma anche televisivi. La sua napoletaneità, l’amicizia con massimo Troisi, ma soprattutto le sue indimenticabili canzoni sono quello che non può non destare la nostra attenzione.
Di contro, la complessità è data non tanto dalla creazione di una particolare fusion, tra il blues e la musica tradizionale partenopea, insieme ad altri pezzi da novanta nostrani, da Tullio de Piscopo a Tony Esposito e James Senese, ma dall’essenza del vero bluesman che è stato. Prima di tutto, Daniele era un eccellente strumentista, un chitarrista che, a buon diritto, non si limitava a partecipare in prima linea a performance internazionali, insieme a star come Pat Metheny, Bob Marley, Chick Corea e Gato Barbieri e Wayne Shorter, solo per citarne qualcuno, ma anche ad accompagnare, in maniera quasi anonima amici musicisti, come è avvenuto, ad esempio, con il rapper J-Ax durante la loro collaborazione.
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Detto questo, fino dai suoi esordi, data l’inesauribile vena creativa, la definizione di un proprio linguaggio musicale, fondato appunto sul blues, è stato qualcosa di probabilmente inevitabile. Un linguaggio, mi preme di sottolineare, che lo ha portato a essere uno dei pochi artisti contemporanei davvero internazionali, e di primissimo livello, già da un paio di decenni, insieme a Gianna Nannini. Un campionario, quest’ultimo, che si è successivamente arricchito di poche altre firme, da Eros Ramazzotti, Laura Pausini, Andrea Bocelli, e Jovanotti, in grado di riempire teatri come l’Olympia di Parigi o l’Apollo Theater di New York City, lasciando ovviamente fuori quelli che noi italiani abbiamo, non sempre così meritatamente, eletto senza condizioni come mostri sacri.
Non solo musicista e cantautore, ma anche, come avviene raramente, anche compositore di colonne sonore di cui, oltre alla trilogia di Troisi, “Ricomincio da tre”, “Le vie del Signore sono finite”, “Pensavo fosse amore… invece era un calesse”, ricordiamo, tra i più noti, “Amore a prima vista” di Vincenzo Salemme, e del cartone animato di Enzo d’Alò “Opopomoz”. A questo aggiungiamo che alcuni suoi brani hanno fatto capolino in importanti pellicole quali “Tre fratelli” di Francesco Rosi, “Mi manda Picone” di Nanni Loy, e del recente “Fame chimica”. E far ricordare una scena anche grazie a una canzone non è proprio uno scherzo.
Considerato che, almeno a me personalmente, piace pensare che un artista con un’adeguata preparazione (che Pino Daniele possedeva) al di là del proprio ambito possa esercitare un ruolo intellettuale tout court, anche a costo di bruciarsi una fetta di pubblico, e di mercato (perché l’onestà paga ma fino a un certo punto), suggerisco di andarsi a rivedere come il cantautore apostrofò l’ex segretario della Lega, Umberto Bossi (*) e le conseguenze che subì (perché ovviamente quest’ultimo, in quanto politico, a differenza del musicista era coperto dai reati di opinione, ndr). Tutto questo molto prima degli scandali che avrebbero costretto Bossi alle dimissioni, e al suo sostanziale ritiro dalla scena politica. Del resto nel suo brano, intitolato ‘O Scarrafone, correva l’anno di grazia 1991, con “… questa Lega è una vergogna…” e “… E se hai la pelle nera/amico guardati la schiena/io son stato marocchino/me l’han detto da bambino/viva viva ‘o Senegal” parla chiaro.
Quanto all’uomo Pino Daniele, mi limito a dire che mi piace pensarlo con il suo contagioso sorriso, e con quell’espressione sorniona che mi ha sempre ricordato un grosso, quanto imprevedibile, gatto. Schietto, e sempre senza compromessi, ma con un’onestà realmente autentica abbastanza rara nel mondo della musica. E non solo in quello.