Alla fine del periodo di vita utile di una centrale nucleare, un argomento spinoso di non facile gestione è la dismissione, che rappresenta una fase estremamente delicata in cui è necessario smontare l’impianto e riportare il sito alla situazione originaria. Operazione non semplice e dai costi molto elevati, visto che parliamo di componenti in parte radioattivi. A livello mondiale, gran parte degli impianti attualmente in circolazione, di seconda generazione, è stato realizzato negli anni ’60-’70 con una durata in servizio prevista di circa 40 anni, per cui si stanno avvicinando alla fine del loro ciclo operativo, e, in alcuni casi, si sta pensando seriamente di fermarli perchè di gestione antieconomica o pericolosa, come dimostra la drammatica attualità in Giappone. Smantellare una centrale, come detto, richiede enormi risorse finanziarie. E si tratta, purtroppo, di costi che tenderanno a crescere sempre di più nel prossimo futuro. Un esempio significativo è quello inglese, dove il nucleare civile è stato tra i primi a prender piede.
La Nuclear Decommissioning Authority, costituita appositamente nel 2005 allo scopo di rimuovere 39 reattori, 5 impianti di riprocessamento del combustibile esaurito e alcuni siti di ricerca ormai in disuso, valutava in oltre 81 miliardi di euro il costo necessario, di cui ben 46 solo per l’impianto di trattamento di Sellafiled, dove si sta implementando un progetto pilota che prevede l’impiego di un robot a controllo remoto per tagliare le lamiere del reattore a più alto tasso di radioattività. Una spesa consistente che l’Inghilterra, come altri Paesi in crisi economica e obbligata a contenere ogni voce del proprio bilancio, oggi non è assolutamente in grado di sostenere.
Ma anche negli Stati Uniti le cose non vanno meglio. Secondo la Nuclear Regulatory Commission, il decommissioning dei 25 reattori fermati comporterebbe un costo variabile tra i 280 e i 612 milioni di dollari per impianto. Con un’aggiunta di 1/2 centesimi per kilowattora prodotto risultano già messi da parte 24 miliardi, a cui ne mancano, però, altri 12, per coprire l’intero parco di 104 centrali attualmente in esercizio. Naturalmente, le cifre in gioco dipendono fortemente dall’impianto considerato. Road rules- You will also learn all the road safety rules and regulations. cheapest levitra browse here Why do we do browse around my website tadalafil generic online Blood glucose tests? To check diabetes. Because of its gel structure, the impact of Kamagra Oral Jelly gets to be consistent, rx viagra these indications vanish for eternity. It can cialis 40 mg help you promote better respiratory and circulatory functions. Ad esempio, nel caso del reattore di Three Mile Island, in cui nel 1979 la mancata chiusura di una valvola portò ad una parziale fusione del nocciolo, occorrerebbero 805 milioni per lo smantellamento. In altri impianti si va da un range di 270/430 dollari per kilowattora di Pickering, in Canada, a 200/500 dollari di Rancho Seco, in USA, fino a 300/550 dollari di Grundemmingen, in Germania.
Nel mondo, fra tutti gli impianti esistenti sia commerciali che di ricerca, ce ne sono ben 124 in fase di dismissione. Senza dimenticare che un altro centinaio chiuderanno i battenti verso la metà del decennio, o, come ad esempio sta accadendo in Belgio per quattro centrali, verranno mantenuti in vita ancora per qualche anno attraverso interventi straordinari estremamente costosi. E non parliamo, poi, dei 450 reattori marini militari abbandonati presso le basi russe di Murmansk e Vladivostock.
E’ necessario considerare al primo posto il fattore tempo, anche perchè la rimozione delle parti più radioattive, quali nocciolo e barre del combustibile fissile, non elimina il problema del rapido deterioramento del reattore. E non aiuta certo sapere che 13 impianti francesi sono chiusi mediamente da 22 anni, 26 britannici da 14 e 25 statunitensi da addirittura 30.
L’IAEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) stabilisce tre tipologie di intervento in materia. Il primo, che si adotta in luoghi poco abitati quando una centrale è dotata di numerosi reattori e si vogliono limitare perdite di radioattività (il caso più noto è quello di Chernobyl), prevede l’incapsulamento dell’impianto con una struttura in cemento armato che sigilla all’interno schermature, barre di combustibile esaurito, fluidi, tubazioni, pompe e tutto quanto mostra livelli medi di radioattività. Il secondo, consiste nella parziale bonifica dell’impianto con la rimozione delle parti critiche. Il terzo, noto in gergo tecnico col nome di green field, prevede la bonifica completa del sito, col ritorno allo stato antecedente la costruzione.
Purtroppo, il numero di centrali totalmente smantellate è oggi assai ridotto ed è limitato essenzialmente a piccoli reattori di ricerca. Il motivo è legato indubbiamente ai lunghi tempi di decommissioning: almeno 50 anni di fermo dell’impianto per abbassare il livello di radioattività residua del sito, a cui vanno sommati altri 60 anni per lo smantellamento effettivo. Totale 110 anni, che in alcuni casi più complessi può arrivare fino a 330.