Da Saddam Hussein a Vladimir Putin, passando da Slobodan Milošević a Mu’ammar Gheddafi, l’Occidente aderente alla Nato ha creato nell’ultimo quarto di secolo figure di mostri da combattere a prescindere dalle loro reali responsabilità. In merito al conflitto russo-ucraino si profilano soprattutto nel nostro Paese comportamenti contro il leader russo a dir poco discutibili se non inquietanti
Lo scorso 3 marzo è apparso sul quotidiano Il Tempo online un curioso articolo, che riportava uno studio della Columbia University di New York, redatto dai docenti Olga Bertelsen e Jan Goldman, in cui è stato realizzato un elenco dei cosiddetti “filo Putin” italiani, ovvero tutti quei giornalisti, intellettuali e politici che hanno sottolineato meriti del presidente russo piuttosto che dirette responsabilità della Nato nell’attuale crisi ucraina (si veda l’articolo).
Il nome corretto con cui vengono indicati questi soggetti è quello di Putinversteher, neologismo tedesco che indica chi è in sintonia con Vladimir Putin, ovvero di persone che, secondo i curatori del progetto, vedrebbero nel leader della Federazione Russa un modello sociale e un’alternativa contro il globalismo e la Ue. Ma chi c’è tra i personaggi inseriti in questa lista del dissenso? A parte alcuni filosofi e politologi come Diego Fusaro e Massimo Cacciari, che si sono recentemente esposti in merito all’argomento, appaiono tra i tanti nomi quello di Giulietto Chiesa (mancato nel 2020, per anni giornalista corrispondente a Mosca che predisse i rischi legati a una potenziale terza guerra mondiale della crisi ucraina in un intervento del 4 giugno 2015), l’ex direttore di Rai 2 Carlo Freccero e lo storico Franco Cardini. Alcune fonti ritengono che la ricerca sia stata in realtà fatta nel 2021 da parte della casa editrice tedesca Ibidem e distribuita dalla Columbia University, tuttavia a curare l’elenco dei nominativi da parte italiana sono stati gli “esperti” Luigi Sergio Germani e Massimiliano Di Pasquale.
La domanda che viene spontanea è a cosa serva tale lista e perché sia stata stilata, soprattutto in un periodo in cui tutto ciò che si dissocia dalla voce unica ufficiale dei canali televisivi oltre che delle grandi testate giornalistiche nazionali ed europee sembra essere additato, anche attraverso i social e relativa censura, in una sorta di gogna mediatica, esattamente come è avvenuto nei confronti del dissenso sulla gestione dell’emergenza sanitaria. Il rischio è quello di incorrere in una vera e propria persecuzione in quanto non aderenti alla volontà del “sistema Occidente”, come ha sostenuto lo storico e saggista Paolo Borgognone in una puntata del Vaso di Pandora, canale alternativo d’informazione su YouTube diretto da Carlo Savegnago, intitolato “Il muro di Berlino del XXI secolo”, per il quale ci troveremmo in un periodo simile a quello che anticipò la scomparsa di Giacomo Matteotti nel giugno 1924.
Ciò che è già avvenuto nel mondo musicale e culturale (il boicottaggio di un corso su Dostoevskij presso l’Università della Bicocca di Milano, il licenziamento dalla Filarmonica di Monaco del M.° Valery Gergiev e successivo esonero da parte della Scala alla direzione de La dama di picche di Čajkovskij per intervento del sindaco milanese Beppe Sala, seguito da quella della soprano russa Anna Netrebko che si è schierata con il direttore d’orchestra) è a dir poco surreale. Sulla stessa linea gli organizzatori dell’ultima edizione di Bologna Children’s Book Fair, svoltosi nel capoluogo emiliano dal 21 al 24 marzo, da cui sono state bandite tutte le collaborazioni con le organizzazioni ufficiali russe negando, di fatto, la partecipazione degli autori a esse legate, come riportato anche su La Repubblica online. Non parliamo poi del congelamento dei beni o addirittura dell’estinzione dei conti correnti di semplici lavoratori russi (anche con doppia nazionalità) per ragioni “precauzionali”, oltre alla proposta del Codacons nazionale di sequestrare tutte le opere appartenenti alla Russia presenti in Italia. E tutto in nome di uno stato di guerra che si è sovrapposto all’emergenza sanitaria cessata il 31 marzo che non ha alcuna motivazione nazionale, se non la cieca obbedienza agli interessi della Nato, peraltro come unico Paese dell’alleanza atlantica.
Evitiamo di approfondire le diverse fake news apparse sui principali media in merito alla guerra, dai filmati di repertorio spacciati per attualità alle singole notizie, inclusa quella controversa sulla strage di Bucha, e concentriamoci sui fatti certi. La decisione da parte del nostro Paese nel fornire di armi le milizie ucraine del presidente cabarettista Volodymyr Zelens’kyj (in particolare quella del Battaglione Azov, fino a ieri definita neo-naziste, ora formata da studiosi di Kant) ha in pratica dichiarato ostilità a un partner commerciale di vitale importanza, un Paese amico che, occorre ricordarlo, ci ha aiutato a Bergamo durante la prima emergenza Covid, con il risultato di mandare in fallimento, grazie a un ingiustificato aumento del gas già acquistato in passato e che la Russia continua a fornirci in rispetto degli accordi intrapresi, numerose imprese italiane, (ultima, ma significativa azienda che ha chiuso: la Colussi di Assisi). Una situazione di crisi che potrebbe far venire il sospetto sia il vero obiettivo delle azioni scellerate del governo, al fine di colpire tutta la classe media imprenditoriale italiana, in continuità con le misure emergenziali sanitarie e in osservanza di un piano strategico volto a favorire le corporate e le multinazionali finanziarie.
Un altro delirio degli ultimi giorni è costituito dal bando della lettera “Z”, esposta dai militari russi e considerata un simbolo di aggressione. Una vera psicosi che, come riportato dalla testata PN, il Primato Nazionale, ha portato all’autocensura da parte della compagnia assicurativa svizzera Zurich del proprio logo «per evitare accostamenti con Putin». Ancora peggio, l’esibizione dell’ultima lettera dell’alfabeto romancio, su sollecitazione del governo ucraino nei confronti dell’Europa, è già condannata in Germania come atto criminale di guerra e perseguita penalmente già in alcuni bund come la Baviera e la Bassa Sassonia, e a riportare la notizia sono nientemeno che sky24. La motivazione è che la zeta viene vista al pari della svastica e può essere condannabile dai tedeschi in base all’art. 140 del codice penale, che punisce la celebrazione di un crimine «in modo da disturbare la pace pubblica» con tanto di multa e tre anni di carcere. Peccato che in realtà l’alfabeto cirillico non preveda la lettera sotto processo e che “Z” sia un simbolo religioso slavo evocativo della Santissima Trinità, dove il segmento superiore indica Dio Padre, quello inferiore il Figlio dell’Uomo (Cristo) e la diagonale lo Spirito Santo, richiamato dello stesso segno della croce del culto ortodosso. Censurarlo in tempo di Pasqua, che per gli ortodossi si celebra il 24 aprile, significherebbe condannare come criminali di guerra tutti gli slavi che vogliono esibire tale simbolo per devozione.
Tuttavia per il nostro governo (si vedano le sconcertanti dichiarazioni del ministro degli esteri Luigi Di Maio durante la trasmissione su La7 Piazza pulita ) e la maggioranza della classe politica italiana, come del resto di quella europea, sostenuti da quasi tutti i media non ci sono storie, si deve condannare senza sé e senza ma tutto ciò che si discosta dal diniego unanime di tradizioni, lingua, cultura e arte russe. Soprattutto, non si deve fare un minimo di riflessione storica sulle motivazioni di questo conflitto, che in realtà è iniziato otto anni fa dopo un colpo di stato organizzato da milizie neonaziste in Ucraina e che ha portato alla separazione delle province russofone del Donbass, oggi riconosciute come stati indipendenti da Mosca, e la riannessione della Crimea dopo plebiscito da parte della Russia che – occorre anche in questo caso ricordarlo – fu regalata all’Ucraina dal presidente sovietico Kruscev, ma è sempre stata di cultura e nazionalità russa. Un colpo di stato che ha deposto il legittimo presidente ucraino e ha portato a discriminazioni ed eccidi di almeno 14mila cittadini di lingua russa nel Paese, come quello avvenuto nella sede dei sindacati di Odessa il 2 maggio del 2014, a seguito di un incendio vergognosamente rimasto per Wikipedia senza colpevoli, dopo un’opportuna modifica dei fatti storici avvenuta sei giorni fa, nonostante sia stato accertato da un rapporto dell’Onu il lancio di bombe incendiarie contro l’edificio, uno stravolgimento dei fatti denunciato anche dalla testata L’Indipendente.
Lo scandalo che riguarda i laboratori biochimici sequestrati dall’esercito russo, notizia riportata anche dall’emittente televisiva Fox News dopo essere stata negata dalla governance americana, nonché le implicazioni in loschi affari a Kiev di Hunter Biden, figlio del presidente Usa, sono tutte situazioni ovviamente taciute. A questo si aggiunga il fatto che la pretesa di inserire l’Ucraina nella Nato è una palese violazione di antichi accordi sulla reciproca sicurezza tra Stati Uniti e Russia in merito alle distanze delle basi missilistiche, un armamento inaccettabile per Mosca, come lo sarebbe per gli americani una eventuale installazione in Messico di testate nucleari russe o cinesi puntate contro Los Angeles. Eppure sull’argomento sarebbe bastato ascoltare le dichiarazioni di un autorevole atlantista italiano, ambasciatore a Mosca nell’allora Unione Sovietica tra il 1985 e il 1989, il saggista, giornalista e storico Sergio Romano, i cui articoli sono stati presi in considerazione dal già citato Di Pasquale in merito alla lista pro-Putin curata dalla Columbia University. L’accademico italiano, su Il Riformista ha asserito che « È stato completamente irragionevole prospettare la possibilità dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Perché la Nato è un’organizzazione politico-militare congegnata per fare la guerra. Farla quando in gioco sono gli interessi del dominus dell’Alleanza atlantica: gli Stati Uniti. Ora, se Washington punta all’ingresso dell’Ucraina nella Nato vuol dire che la guerra può essere portata alle frontiere della Russia. Questa è comunque la percezione di Mosca di cui non si può non tener conto. Ritengono che si tratti di una preoccupazione in qualche modo fondata e non l’“ossessione” di Putin».
Non solo, l’8 febbraio ha rilasciato un’intervista a Il Manifesto in cui ha affermato che «l’Urss non c’è più» e non si deve continuare con «una costante ricerca del nemico», rimarcando il suo dissenso contro lo scetticismo occidentale sulla natura europea della Russia (si veda anche su Osservatorio Globalizzazione).
L’impressione, purtroppo, è invece quella che si voglia ricercare per forza un nemico dell’Occidente. Come fu già per Saddam Hussein, Milošević e Gheddafi, accusati di crimini non commessi o di possedere presunte armi chimiche (storiche le false prove sul possesso di antrace da parte del leader iracheno in un discorso tenuto nel 2003 presso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu dall’allora segretario di stato Usa Colin Powell, la Nato ha troppo spesso perpetrato eccidi ingiustificati, come i bombardamenti con l’uranio impoverito su Belgrado il 24 marzo 1999 durante la guerra per il Kosovo da parte di aerei Nato decollati dall’Italia, quando il presidente del consiglio era Massimo D’Alema e il suo vice nonché ministro della Difesa l’attuale presidente della repubblica Sergio Mattarella (tra le diverse fonti sull’argomento, si legga Il fatto quotidiano), per non parlare dell’inutile massacro con bombe al fosforo da parte di reattori americani, francesi, inglesi e canadesi contro gli iracheni in fuga dl Kuwait nel 1991 lungo la cosiddetta “autostrada della morte” o, per l’appunto, il milione e mezzo di iracheni sterminati ingiustificatamente nella seconda guerra del Golfo. Anche in questi casi, come contro la Libia nel 2011, c’era qualcuno da “odiare”, una prassi che con Putin ha raggiunto livelli mai sfiorati (è persino superiore alla campagna denigratoria nei confronti di Donald Trump durante la campagna per le elezioni presidenziali del 2020) e che fanno immancabilmente pensare alla figura di Emmanuel Goldstein, il nemico numero uno del Grande Fratello in 1984 di George Orwell, contro il quale in ogni ufficio e luogo pubblico, alle ore 11, partiva l’isteria collettiva con i “Due minuti d’odio”. Un rituale presente in letteratura, ma che somiglia alla politica di pace propagandata oggi in Italia, unitamente al rifornimento di armi destinati ai miliziani ucraini e l’eventuale aumento della spesa bellica al 2% del Pil (che sembrerebbe attualmente scongiurata), nonché il già menzionato stato di emergenza per guerra in barba all’art. 11 della Costituzione italiana, condizione che sembra essere ratificata dallo stesso presidente della Consulta, Giuliano Amato.
Il dialogo, la ricerca, il dibattito storico e politico sembrano essere fenomenologie di un passato che si vuole affossare (e la recente espulsione di trenta diplomatici russi sembra confermare questa linea di scontro), in nome di un primato dell’Occidente che non ha più ragione di essere, se mai ne abbia avuta. Ma la vera pace, e non certo quella dei “pacifinti”, non è fatta di sotterfugi e inganni o corse agli armamenti, e tantomeno di ricorsi all’odio. Invero, chi vuole censurare un autore classico russo o un simbolo sacro, alimentando una “caccia alle streghe”, ha rinunciato a qualsiasi verità che solo il confronto culturale può sviluppare. Le guerre si fermano anche con la crescita di una consapevolezza da parte di ciascun individuo contro ogni tentativo di ipnosi mediatica collettiva. Ancora una volta, il conformismo e l’ignavia non possono produrre alcun bene, solo lo spegnimento dell’umanità. In virtù delle ultime dichiarazioni del presidente del consiglio Mario Draghi, sarebbe meglio alimentare la pace leggendo un buon libro, magari di Dostoevskij, con il condizionatore o riscaldamento accesi a seconda del clima, piuttosto che censurare la letteratura come nei roghi nazisti contro i libri di autori considerati contrari allo “spirito tedesco” di allora.
Aprire i propri orizzonti cognitivi, oltre a un’autentica libertà, conduce alla demolizione della staticità granitica di qualsiasi dittatura, soprattutto quella che si maschera da democrazia. E, grazie a una diversa percezione della realtà, l’odio indistinto può finalmente essere abbattuto a favore di un diverso grado di conoscenza e partecipazione.