Breve storia del voto referendario in Italia
A cura di Alex Miozzi e Claudio Elli
Quando si parla di referendum, al singolare come al plurale (che resta referendum, e non referenda, poiché un termine proveniente da un’altra lingua, fosse anche il latino, è indeclinabile) c’è sempre un po’ di confusione. Infatti capita spesso di ascoltare persone che equivocano questo importantissimo strumento democratico con una semplice raccolta di firme, una petizione rionale o altro ancora.
Al di là delle diverse scuole di pensiero internazionale, da quella che considera il referendum una ratifica del popolo secondo i canoni previsti dal Contratto sociale di J.J. Rousseau (Contrat social, III, 15), piuttosto che come volontà organica del popolo ovvero, essendo il popolo un’astrazione, imputabile esclusivamente allo Stato, di cui il cittadino è membro, il referendum rimane comunque l’Istituto mediante il quale si conferisce al corpo elettorale che lo rappresenta il potere di promuovere, approvare o respingere una legge formale.
Secondo la nostra Costituzione di referendum ne abbiamo sostanzialmente di tre tipi. Il primo, cosiddetto abrogativo, è una consultazione promossa da chi desidera abrogare uno o più leggi e atti aventi forza di legge, ed è regolato dall’articolo 75. Il secondo, denominato costituzionale, verte sull’eventuale conferma di leggi e norme costituzionali oppure di revisione costituzionale, secondo l’articolo 138. Infine il terzo tipo, detto territoriale, regolato dall’articolo 132, individua al primo comma la fusione di regioni già esistenti oppure la creazione di nuove regioni, mentre al secondo comma viene disciplinato il passaggio da una regione a un’altra di comuni o province. Vi sono poi altri tipi di quesiti referendari che possono essere promossi da leggi e regolamenti ordinari di interesse locale, per esempio a livello regionale e comunale, normati dall’articolo 123, comma 1 della stessa Costituzione, che prevede che gli statuti regionali regolino l’esercizio del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della regione.
La disciplina normativa, oltre che come detto dalla Costituzione è altresì regolata dalla legge 25 maggio n° 352 del 1970, oltre che da sentenze della Corte Costituzionale, prevede un duplice controllo, il primo preliminare, e per così dire tecnico, da parte dell’Ufficio centrale per il Referendum, secondo la legge n° 352 del 1970, e uno di ammissibilità, operato dalla stessa Consulta, previsto dalla legge costituzionale n° 1 del 1953.
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Dal 1946 a oggi gli italiani sono stati chiamati al voto di 66 quesiti referendari, in almeno una cinquantina dei quali è stato raggiunto il quorum. Il più delle volte si sono trattate tematiche di una certa importanza, dal divorzio all’aborto, all’impiego dell’energia nucleare al finanziamento pubblico ai partiti, fino al legittimo impedimento per le più alte cariche dello stato.
Quest’ultimo di domenica 17 aprile 2016, in merito alla possibilità o meno di trivellare per la ricerca di gas e petrolio entro le 12 miglia dalla costa marina per la durata di vita utile dei giacimenti al di là dei termini di concessione esistenti, secondo quanto previsto dal comma 17, terzo periodo, dell’articolo 6 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, come sostituito dal comma 239 dell’articolo 1 della legge 28 dicembre 2015 n. 208, sarà il 67° in ordine cronologico.
In realtà il nostro stesso ordinamento repubblicano nasce da un referendum, appartenente al secondo gruppo di cui sopra. Mi riferisco a quello del 2 giugno del 1946 relativo alla forma istituzionale dello stesso stato, in cui il 54,3% degli italiani, su di un totale di 89,1% degli aventi diritto, scelse proprio la repubblica.
Votare si deve, poiché il voto è al contempo un diritto e un dovere sancito dalla stessa Costituzione Italiana all’articolo 48, si tratti elezioni che di referendum. Un diritto che fino a un certo periodo rappresentava non soltanto, come oggi, un dovere civico tutto sommato facoltativo ma un preciso obbligo, tanto che i non votanti venivano indicati all’interno di uno speciale albo, con espressa segnalazione all’interno del certificato di buona condotta, almeno fino al ’93 in cui questa disposizione, tutto sommato anacronistica, è stata abrogata.
A prescindere dalla norma giuridica affermare di non votare è comunque sbagliato. “Partecipare alle consultazioni, recarsi alle urne, significa essere pienamente cittadini, fa parte della carta d’identità del buon cittadino” ha affermato in questi giorni il presidente della Corte Costituzionale, Paolo Grossi, a dispetto dell’invito a non votare lanciato da importanti esponenti del mondo politico. Un errore prima di tutto politico, come insegna a imperitura memoria il caso di Bettino Craxi il quale, in occasione del referendum del ’93 sulla preferenza unica, invitò testualmente di andare al mare anziché ai seggi. Dato anche l’esito quasi plebiscitario della consultazione, i votanti furono circa il 70% degli aventi diritto e tutti i referendum passarono, si ebbe nei confronti dell’allora segretario del PSI un vero e proprio effetto boomerang.
Esisto opposto si ebbe con un appello analogo, che purtroppo sortì l’obiettivo prefissato, proferito dal cardinale Camillo Ruini, allora presidente della Conferenza Episcopale Italiana, pronunciato nel marzo del 2005 in merito ai quesiti referendari sulla procreazione assistita, del 12 giugno di quello stesso anno. E’ da dire prima di tutto che questo intervento suonò come l’ingerenza proveniente dal leader di un’assemblea appartenente a uno stato estero, il Vaticano appunto. In realtà, a prescindere dalle opinioni del cardinale, e come dimostrato da altri referendum che non hanno raggiunto il quorum, oltre una quarantina (nota bene, la cui somma con quelli il quorum è stato raggiunto non dà il 66 totale di cui sopra se non altro perché molti quesiti sono stati accorpati fra loro), dato un 25% circa di affluenza media la specifica consultazione agli italiani non interessava.
E’ anche bene aggiungere, tuttavia, poiché non sarebbero in molti a saperlo, che invitare a non votare è un atto penalmente perseguibile. Esistono infatti due leggi (l’art 98 del Dpr. n° 361 del 30 marzo 1957 e successive modifiche del Titolo VII, relativo alle elezioni alla Camera e al Senato e la legge n° 352 del 25 maggio 1970 che estende l’articolo 98 ai referendum) che puniscono la propaganda astensionista se fatta da persone che ricoprono un incarico pubblico o da ministri di culto con pena detentiva dai 6 mesi a 3 anni.
In ultimo, e questo non ce lo indica il diritto con le sue norme e le sue sanzioni, ma ce lo insegna la Storia con lezioni decisamente durissime, soprattutto per chi ha pagato con la vita la propria lotta, il voto è in primis un diritto di libertà. E se oggi ognuno di noi lo può esercitare liberamente (ricordiamo che le donne in Italia votarono per la prima volta nel marzo del ’46) è grazie essenzialmente a chi ha combattuto per conseguire una simile conquista. E in tal senso non dimentichiamoci, parafrasando Gaber, che «libertà è partecipazione»…