I fatti sono noti. A Parigi, verso le 11.30 di ieri, mercoledì 7 gennaio 2015, un commando di due criminali addestrati militarmente, armati di AK47 e di un lanciarazzi e coadiuvati da un terzo complice in strada, ha assaltato a sangue freddo la redazione del periodico satirico Charlie Hebdo. Dodici le vittime rimaste uccise, tra cui il direttore, Stéphane “Charb” Charbonnier, i disegnatori George Wolinski, Cabu, Tignous, e due poliziotti, a cui si aggiungono diversi feriti. Più che un atto terroristico le modalità sono state quelle di un’esecuzione, proprio durante la riunione di redazione del giornale satirico.
Il mondo dei siti vicini alla realtà dell’estremismo islamico ha accolto favorevolmente la terribile azione, accompagnata dal grido di “Allah Akbar” (“Allah è grande”), il grido di guerra tipico dei terroristi jihadisti, anche se gli aggressori parlavano in un perfetto francese. Stando alle prime indiscrezioni si tratterebbe di una specie di vendetta contro l’attività della testata, sulla cui copertina è pubblicata la foto dello scrittore Michel Houellebecq, criticato per il suo romanzo in uscita quest’oggi dal titolo “Sottomissione”, in cui si racconta di una Francia prossima ventura totalmente islamizzata e governata da un presidente islamico. Inoltre la rivendicazione riguarderebbe vignette pubblicate precedentemente, ritenute lesive e blasfeme nei confronti dell’Islam, e non è un caso che sia il direttore sia la testata siano già stati minacciati in precedenza. Ma, si sa, la satira, nel bene come nel male, colpisce tutto e tutti, si tratti di Al Baghdadi (il capo dell’Isis), di un rabbino, del Sommo Pontefice come di chiunque altro. Ed è quello che ha sempre fatto la redazione di Charlie Hebdo, attirandosi per questo numerose critiche da ogni parte, rischiando addirittura la chiusura.
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Detto questo, il rischio principale che si può correre dopo questo atroce attentato è proprio quello di invocare una guerra di civiltà tra fantomatici “mondi”, che poco ha a che fare con una lucida analisi dei fatti, ma serve solo ad alimentare un populismo demagogico altrettanto violento. Come redazione di una testata giornalistica, nell’esprimere indignazione per l’atto terroristico e piena solidarietà ai colleghi di Charlie Hebdo, preferiamo invece rivendicare la libertà di stampa, di espressione e di satira, la stessa che deve permettere di criticare, e ironizzare, su qualsiasi cosa, anche se si tratta di un profeta, di un capo religioso, di uno stato o del potente di turno.
Occorre quindi ricordare che anche nel nostro ordinamento, secondo un principio gerarchico fondato sulla deontologia, se la cronaca, per prima, e poi il giornalismo d’inchiesta sono tenuti a criteri di verità e assolutezza, nel primo caso ancora più che nel secondo, le maglie a cui deve sottostare la satira non possono essere le stesse, perché il suo compito è proporre la rappresentazione deformata della realtà e non necessariamente informare. E’ per questo che deve potersi scagliare, letteralmente, contro tutto e tutti, senza compromessi.
Alla peggio, se la battuta o la vignetta non fa ridere, sono gli stessi lettori a bocciare l’autore, ma rimane indiscutibile il fatto che senza libertà di stampa, e di satira, non c’è democrazia.