I Gufi, gruppo musicale e cabarettistico costituito da Roberto Brivio, Nanni Svampa, Gianni Magni e Lino Patruno, fu attivo a Milano dal 1964 al 1969. Dopo lo scioglimento ci fu una breve reunion nel 1981 con la trasmissione diretta da Beppe Recchia “Meglio Gufi che mai”, andata in onda presso l’emittente televisiva Antenna 3 Lombardia, e la presenza tra gli ospiti della 31esima edizione del Festival di Sanremo con la canzone Pazzesco. La comicità di Brivio, in particolare durante questa esperienza dove era conosciuto come Cantamacabro e che gli è valsa nel 2020 in qualità di autore il riconoscimento del prestigioso Premio Nazionale Franco Enriquez, è indubitabile, appartiene a un patrimonio culturale italiano oltre che milanese che non può essere messo in discussione. A più di due mesi dalla scomparsa dell’artista non mi dilungherò su questo specifico argomento, già ripetutamente affrontato in profondità da altri. È mia intenzione portare un contributo alla disamina sul suo teatro, che ho avuto l’onore di condividere per tre intense stagioni, e il carico innovativo che questo ha comportato
Credere che il contributo teatrale di Roberto Brivio rientri negli schemi di una pura e semplice esecuzione scenica di tipo tradizionale è limitativo rispetto all’intenzione artistica che risiede nella genesi dello stesso operato. Basterebbe citare tre lavori firmati dall’ex Gufo per capire lo spessore di una ricerca destinata a mietere una continuità nel presente, ovvero i due Pirandello Questa sera si recita a soggetto e Ciascuno a suo modo, seguiti da I canti del lavoro. Tre progetti artistici non cultuali teatrali, nella cornice di un diaframma scenico che enfatizza come in un trompe–l’œil la stessa metateatralità di Pirandello, troppo spesso interpretata fino a quel momento con una consistenza drammatica forse estranea all’autore.
L’idea stessa di legare il cabaret al teatro, nei primi Anni Duemila, non era così scontata. Alcune didascalie di Pirandello potevano richiamare l’attenzione a un’esperienza futurista che poteva ricondurre, dalle Avanguardie Storiche, alle neoavanguardie nonché al cabaret d’eccellenza di mezzo secolo fa, ma il legame tra una diretta interazione col pubblico e l’accademica esecuzione di un testo drammaturgico era considerato ancora un azzardo. Uno per tutti, lo spettacolo Ciascuno a suo modo, andato in scena al Teatro Ariberto di Milano dal 20 gennaio al 6 febbraio 2005, iniziava già sulla strada dove uno “strillone” richiamava l’attenzione dei passanti con la cronaca della vicenda, per proseguire nel foyer con la presenza del Barone Nuti (interpretato da me) che cercava di respingere gli spettatori a fronte di un velo pietoso sugli eventi descritti dallo spettacolo, fino alla doppia narrazione tra “realtà” e recitativo, quest’ultimo parte nella parte, con frequenti intromissioni dei personaggi della cronaca in sovrapposizione ai protagonisti della fantasia, Delia Morello e Michele Rocca, impersonati da Federika Brivio e Riccardo Mazzarella.
L’interazione con il pubblico già sperimentata la stagione precedente con Questa sera si recita a soggetto, sottolineata da una più incisiva presenza rispetto all’originale di Hinkfuss/Brivio come degli attori in sala, nonché da alcune scene interpretate nel foyer durante gli intervalli, in Ciascuno a suo modo aveva assunto una valenza performativa, al di là della pura rappresentazione. Il ruolo dello spettatore diveniva cruciale, non solo in virtù del punto di osservazione differenziato rispetto al teatro tradizionale, ma per la sua possibilità d’intervento in questa prima fase.
Le reazioni alle provocazioni ricevute (dopo avere incontrato lo strillone gli spettatori erano invitati dal Barone Nuti ad andarsene ancora prima di entrare in sala) condizionavano tempi e accadimenti di quel contesto performativo in vicinanza con lo sniggling, diverso a ogni replica.
Sempre nella stagione 2004/2005, all’Ariberto e in tournée, il gioco metateatrale si era unito alla tradizione folkloristica del Nord Italia (e non solo) con i Canti del lavoro e la variante dei Canti popolari, oltre alla versione del maggio 2005 al Teatro Filodrammatici di Milano, che vide la partecipazione musicale di Lino Patruno, e la successiva speciale replica intitolata Ciapa el tram balòrda andata in scena al Teatro Carcano di Corso di Porta Romana. Qui le canzoni che hanno rappresentato il mondo del lavoro e la tradizione popolare del nord dialogavano con il cabaret dei Gufi e del Cantamacabro, interpretato da Brivio e Grazia Maria Raimondi. Durante l’esecuzione dello spettacolo s’intervallavano i canti alle narrazioni, in qualche caso emulativi del rituale del filò, la veglia notturna contadina tipica di alcune zone della “bassa” e in particolare del Polesine, dove venivano raccontate storie e leggende locali. Suggestioni che uniscono l’ironico, il grottesco ad alcuni tratti orrorifici, gli stessi che probabilmente ispirarono dopo un viaggio in Italia del 1926 lo scrittore americano Howard Phillips Lovecraft, in una kermesse scenica con interpretazioni di gruppo e giochi performativi di singoli collegati fra loro da un plot sillogistico a episodi.
I canti popolari e del lavoro avevano un’altra caratteristica, presente nello stesso cabaret dei Gufi, ovvero non attivavano solo valenze comiche nella narrazione complessiva ma, come più volte ripetuto dallo stesso Brivio durante la preparazione degli spettacoli, rispecchiavano aspetti identitari regionali, in prevalenza lombardi. Alcune arie che riguardavano il lavoro delle mondine piemontesi o altre attività, al pari dei minnesang, canzoni d’amore scritte in alto tedesco medio dal XII al XIV secolo, modificavano il testo sulla stessa base musicale in merito alla narrazione descritta e i dialetti territoriali.
Il teatro-cabaret di Brivio, che naturalmente ha avuto altri sviluppi e riprese come il ciclo Gufologia e Incabaret, fu quindi antesignano di quella evoluzione verso la performance art presente nella scena contemporanea, una tendenza che ho già avuto modo di esprimere lo scorso anno ne La finestra di Antonio Syxty.
Identità, tradizione popolare e improvvisazione sono ingredienti connaturati a questa esperienza a tratti folle e sperimentale, che ha contribuito, nella giocosità, a costruire un solco oltre la semplice rappresentazione e ha costituito un’indimenticabile tappa verso le nuove frontiere del linguaggio teatrale.