Foto: Filippo Gherardi - Il Trionfo della Saggezza, 1671 - Basilica di San Giorgio Maggiore, Venezia
Foto: Filippo Gherardi - Il Trionfo della Saggezza, 1671 -  Basilica di San Giorgio Maggiore, Venezia
Foto: Filippo Gherardi – Il Trionfo della Saggezza, 1671 – Basilica di San Giorgio Maggiore, Venezia

Un percorso scorretto per l’ignavo pudore di chi per paura di morire rinuncia a vivere, ama la cancel culture e porta la speranza, Luigi Tenco insegna, a essere un’abitudine. Con due poesie, mia e di Laura Mantovani, e un racconto giovanile adatto ai più piccoli eternamente adulti. Con i migliori auguri di una buona estate …

IL SEGNO di Claudio Elli

Quando il cammino intreccia un sogno,
e la tua identità si eleva dal ventre molle della cecità
fino alla radice di un Verbo,
– e il Sole, e le gemme di un rinato Amore
osservano la loro aurora nella maturità di un fiume
perenne -,
l’ebbrezza diviene realtà mistica, e la Croce assume
il rigore di un trasfigurato ricordo.

(da Gwenhwyfar di Claudio Elli, Firenze Libri, 2003, ISBN 88 7256-127-2)

 

Foto © Anna Macchi
Foto © Anna Macchi

FIABA di Laura Mantovani

Vorrei che il mondo
si addormentasse di un sonno profondo,
senza tempo, come in una fiaba.
E che poi, all’improvviso,
un bacio fatato lo risvegliasse,
ma che tutto fosse mutato,
come per magia.
Vorrei che soltanto il bene
fosse risparmiato,
che il male venisse disintegrato
per sempre e, con esso,
tutte le cose malvage della terra.
Ci risveglieremmo in pochi
su un pianeta quasi deserto,
ma dove Madre Natura,
con gli animali e tutte le altre sue meraviglie,
ci permetterebbe di ricreare
una realtà nuova,
quell’Eden, che ora sembra
irrimediabilmente perduto,
ma che invece qualche saggio
ha custodito nel cuore
per poter estirpare le gramigne
che hanno avvelenato l’erba buona.
Poeti, artisti, filosofi,
politici, scienziati e tecnologi
riprendete a riempire pagine
con parole di speranza,
a dipingere tele
con colori intensi e gioiosi,
fate vibrare le corde delle arpe
di note armoniose,
diffondete pensieri e teorie costruttivi,
rigenerate la bellezza.
Solo voi potete salvare l’uomo
dall’abisso delle tenebre
prima che vi sprofondi
per sempre.

 

Foto © Carmen 6969
Foto © Carmen 6969

LA CHIAVE di Claudio Elli
Racconto liberamente ispirato al quadro Mattino d’autunno di G. Conforti
(Treviglio, 1986)

Il dipinto
Eppure quel quadro, semplice e nello stesso tempo carico di un’intensa poesia, pareva gli nascondesse qualcosa.
Giampiero rimirò l’opera terminata il giorno prima: l’irregolarità del prato, a tratti verde, usato come sfondo; la doppia fila d’alberi sulla sinistra tesa ad un misterioso infinito; il giallo ormai spento di un campo di granturco, sulla destra, di là da un sentiero; e, in fondo, una casupola, avvolta dal magico manto di quella foschia che tutto pare inghiottire, ma che in realtà nulla assorbe.
Sopra, un cielo quasi autunnale, messaggero di freddi futuri, simile alla cupa voce di un antico richiamo.
Il tutto, condito con quella dolce malinconia che accompagna il crepuscolo d’ogni estate.
Giampiero s’accese una sigaretta, sedette sulla comoda poltrona posta dinanzi il cavalletto.
Iniziò, quasi senza accorgersene, ad analizzare con lo sguardo la casa del dipinto.
Si trattava probabilmente di una vecchia cascina, resa abitabile dopo un’adeguata ristrutturazione e affiancata da una stalla.
Stranamente, l’assalì la curiosità di sapere quale misterioso abitante occupasse quelle mura, pensiero che fino al giorno prima, dal vivo, mentre ne dipingeva i contorni, non lo aveva minimamente sfiorato: probabilmente la patina di cui era rivestita gli conferiva lo stimolo per il quesito.
Il problema di partenza dell’autore non era in ogni caso risolto; l’alone di mistero, vero o presunto, custodito nel quadro, non era stato dissipato.
Intanto, la stanchezza di quel tardo pomeriggio cominciò ad impossessarsi dell’artista. La testa poggiata allo schienale della poltrona, Giampiero spense la sigaretta e socchiuse gli occhî.
La presenza di un grillo, entrato probabilmente da uno spiraglio della finestra, accompagnò i suoi pensieri.
Il quadro, la casa, gli alberi nella foschia, il grillo con la sua monotona cantilena…

L’incantesimo
Si svegliò con la sensazione d’essere un angelo risalito in cielo dopo una lunga permanenza tra gli uomini, impressione dovuta forse all’insolita luminosità presente nello studio.
Ebbe un sussulto quando s’accorse della verità, e mancò poco che cadesse dalla poltrona per lo spavento: le pareti in vetro della terrazza a serra erano brunite, quasi non esistesse altro al di là d’esse d’un infinito scuro e tetro, e il quadro, dapprima sul cavalletto, aveva abbandonato la sua originaria natura. Era diventato un’immagine tridimensionale, oltre la stanza, accessibile da una portafinestra che sostituiva l’originale ingresso.
Ancora esterrefatto, si mosse a tentoni verso quello spettacolo, e si rese conto di non avere altra via d’uscita dallo studio se non quella d’entrare nella rappresentazione dell’opera.
Aprì la porta che dava sul prato, si fermò un attimo sulla soglia a scrutare l’orizzonte. Il paesaggio che gli stava di fronte rifletteva perfettamente, nei contorni, quello da cui aveva tratto ispirazione, ma solo nei limiti espressi dal dipinto: oltre la consueta immagine delimitata in precedenza dalla cornice non vi era nulla.
Fece alcuni passi sul prato, e s’accorse di un eccessivo immobilismo dell’atmosfera, pur dotata di forte carica emotiva. In effetti, pensò, non si trattava di un panorama reale, ma di un quadro vivo.
Giampiero cominciò a muoversi in direzione della casa, quasi per atto ispirato a devozione, come l’adepto attratto dal tempio della propria religione.
Anch’egli era stupito da questa attrazione, ma la forza che lo spingeva verso quella cascina era più forte di qualsiasi ragionamento.
Arrivò in poco tempo dinanzi la porta d’ingresso.
Le mura erano parzialmente scrostate, e per un attimo ebbe addirittura l’impressione che l’abitazione fosse abbandonata da tempo.
Poi, d’impeto, prese la decisione: s’avvicinò alla porta, fece una leggera pressione sulla maniglia ed entrò.
L’ingresso era costituito da un’ampia stanza polverosa, il cucinotto in un angolo, le ragnatele dappertutto. I mobili erano coperti da drappi bianchi per lo più rattoppati; la muffa, compagna ideale dell’umidità, s’arrampicava sugli intonaci.
– C’è qualcuno?
Nessuna risposta.
Giampiero ripeté la domanda, una flebile eco fece da coro.
D’improvviso, un cigolio proveniente dalla stanza adiacente ruppe il silenzio.
Il pittore, dapprima intimorito, s’avvicinò alla porta socchiusa che conduceva al locale, e preso coraggio, la spalancò.
– Chi è?
Il buio di una camera da letto inghiottì le sue parole.
Fece alcuni passi. Il letto senza materasso, uno spoglio comò, l’armadio a muro, conferivano un ulteriore senso d’abbandono e decadenza all’ambiente.
Passarono pochi istanti prima che qualcuno gli sbattesse la porta alle spalle. L’approssimarsi del cigolio trasformò un sottile brivido di paura in terrore puro.
Si voltò.
Le figure della Morte, di un pagliaccio triste e di un uomo senza volto, tutte e tre con le catene ad un piede, l’appiattirono alla parete.

Vita, Speranza e Conoscenza
– Chi siete?
Un tremolio accompagnò la sua voce.
– Non ti preoccupare, non ti faremo alcun male – disse la Morte – Ci scusiamo anzi d’averti attirato qui con un tranello, ma se ci fossimo fatte vive subito e così combinate, saresti scappato immediatamente. In ogni modo ci presentiamo: siamo la Vita, la Speranza e la Conoscenza.
Il volto di Giampiero mutò rapidamente, e da terrorizzato che era, assunse l’aspetto di un uomo stupito se non addirittura irato per essere stato preso in giro:
– Fatemi capire… State scherzando, vero?!
– No, … capisco il tuo stupore… Il nostro attuale aspetto non è certo garante dei nostri nomi. Ma guardaci bene: i costumi che portiamo sono legati da una catena, ed essa è saldamente chiusa con un lucchetto di cui non possediamo la chiave. Se ci vedessi sotto queste maschere dalle quali siamo tenute prigioniere ci riconosceresti per quello che siamo realmente. Io e la Speranza possiamo almeno parlare, ma la Conoscenza… poveretta!, nemmeno questo le è più concesso.
– È vero, è vero – commenta il Pagliaccio/Speranza – è rimasta senza volto, e questo significa non avere bocca per parlare, occhi per vedere, orecchie per sentire… e neppure il naso per respirare gli umori del cosmo.
– Ma chi possiede questa chiave? – chiese Giampiero.
– Colui che ci ha imprigionato: il Vecchio Gufo, Re delle Tenebre – rispose la Vita.
– Il Vecchio Gufo?
– Sì, proprio lui. E tu sei qui per prendergli la chiave.
– Io?!
– L’attrazione verso questa casa, la trasformazione del tuo studio… è opera della nostra volontà. D’altronde, cerca di capire, a chi potevamo rivolgerci, se non alla forza della poesia? Tu sei un artista, un pittore, una persona sensibile… Puoi aiutarci.
– Ma che devo fare esattamente?
– Fuori da questa casa, come ben sai, c’è una lunga fila d’alberi. In fondo, dove tutto si confonde fino a scomparire, troverai una grossa quercia con una pertica al fianco. Ti dovrai arrampicare fino in cima e, sull’ultimo ramo, troverai appesa la chiave. Prendila e torna a liberarci, ma stai attento! Non fartela riprendere dal Vecchio Gufo, che sicuramente è appollaiato lì vicino, altrimenti la trasferirà in un nascondiglio più sicuro, e le possibilità di una nostra liberazione si farebbero più labili.
– E se rifiutassi?
– Coscienza tua. L’esistenza che conduci è legata a noi e la tua pittura può avere senso solo se entri in possesso di quella chiave.

Il Re delle Tenebre
Non gli era mai capitato di passare così rapidamente dall’estate, seppure nei suoi ultimi giorni, all’inverno più tetro. Del resto, pensò, non aveva neppure mai avuto l’occasione di passeggiare dentro un quadro.
L’enorme quercia, in cima alla quale abitava il Vecchio Gufo delle Tenebre, era situata proprio al confine tra le due realtà, quasi si trattasse del limite del mondo.
Giampiero non perdette tempo ad esaminare i dintorni, s’aggrappò alla robusta pertica che penzolava dall’alto.
La vetta dell’albero era coperta da nubi, e ciò non gli permise di sapere per quanti metri si sarebbe dovuto arrampicare.
Tuttavia, strattone dopo strattone, si ritrovò in mezzo alle nubi; e ancora più su, sempre più in alto verso un ipotetico quanto insolito zenit.
Era quasi allo stremo delle forze quando, appeso ad un ramoscello, probabilmente a pochi centimetri dall’apice, vide una chiave penzolare, lunga mezza spanna, dorata e d’antica forgia.
Dopo un rapido sguardo intorno a sé, naturalmente nei limiti concessi da una sosta su una pertica, afferrò la chiave.
«Non c’è nessuno», pensò soddisfatto «non è stato poi così difficile».
La zampa di uccello che afferrò la mano di Giampiero piombò quindi senza alcun preavviso, preceduta solo da un’enorme ombra scura.
Il pittore, con uno scatto, alzò lo sguardo. Mostruoso, gigantesco, il Vecchio Gufo lo scrutava con i suoi occhî infuocati, e con un’abile mossa di artigli gli scippò la chiave dalla mano. Giampiero, dopo un attimo di smarrimento, afferrò a sua volta la zampa del Gufo, dando inizio ad un fantastico quanto insolito combattimento che avesse mai avuto luogo tra un uomo ed un uccello.
Il Gufo, che non riusciva a liberarsi dalla presa di Giampiero, tentò di beccarlo in testa; Giampiero, di contro, che non riusciva a riprendersi la chiave, si aggrappò con entrambe le mani alla zampa del Gufo abbandonando la pertica.
E tira, e molla, e stringi, ed apri, e picchia, e mordi, il Gufo mollò finalmente la presa, ma mollò anche Giampiero.
La chiave s’infilò in caduta nel collo sbottonato della sua camicia, l’artista cominciò a precipitare inesorabilmente in quel vuoto senza fine.
Tutto era confuso, una figura dai contorni femminili si stagliò sopra di lui.
– È tardi… È tardi… – ripeteva l’immagine.
«È tardi per chi?» si chiese Giampiero.
Ma sì, certo, era troppo tardi per lui.
Era effettivamente riuscito a recuperare la chiave, ma stava anche per sfracellarsi sul prato del suo quadro.
Giampiero, vista la mal sortita, chiuse gli occhî e si lasciò dolcemente risucchiare dal vortice.

La chiave ritrovata
– È tardi, svegliati, è pronta la cena!
La figura femminile ora era molto più chiara. Si trattava di Margherita, sua moglie, e lui era seduto sulla poltrona.
– Come?
– Sì, ti sei addormentato, ma ora preparati, che metto in tavola.
Giampiero guardò l’orologio: erano le sette e tre quarti, aveva dormito per più di due ore.
– Va bene, vai pure in sala, ti raggiungo subito – le rispose.
Una volta uscita Margherita, Giampiero osservò il suo vecchio e caro studio.
Fuori dalle vetrate della terrazza a serra, il buio era interrotto qua e là dalle luci del paese, ed il quadro era lì, al suo posto, sul cavalletto a fianco della porta d’ingresso.
– Era solo un sogno! – si trovò a dire sollevato.
La fronte era imperlata di sudore, prese da una tasca dei pantaloni un fazzoletto per asciugarsela.
Nel compiere il gesto s’accorse che qualcosa di freddo, sagomato, probabilmente metallico, era scivolato nel bacino dalla camicia.
Si frugò per constatare la natura dell’intruso, e scoprì che si trattava di una chiave. Era lei, la stessa del sogno, trapassata nel mondo reale.
Dapprima la guardò esterrefatto, poi la mise con una certa soddisfazione nel taschino della camicia; un sottile convincimento, accompagnato da un sorriso, si tracciò tra i suoi pensieri.
In fondo, Giampiero, la chiave per svelare nel suo quadro la Vita, la Speranza e la Conoscenza, l’aveva trovata.

(In La dea di padùk e altri racconti di Claudio Elli, Firenze Libri, 2001, ISBN 88-8254-820-1)

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