
STORIA DI UN CINGHIALE – Qualcosa su Riccardo III
14 Marzo @ 8:30 pm - 6 Aprile @ 4:00 pm

Piccolo Teatro Studio Melato
dal 14 marzo al 6 aprile 2025
Prima nazionale
Gabriel Calderón
STORIA DI UN CINGHIALE
Qualcosa su Riccardo III
con Francesco Montanari
Una nuova produzione Piccolo Teatro di Milano e Carnezzeria
Un re che per diventare tale ha dovuto eliminare tutti i possibili rivali; un attore che finalmente ha ottenuto il ruolo della vita. Dal 14 marzo al 6 aprile, al Teatro Studio Melato, Gabriel Calderón affida a Francesco Montanari un monologo che è un’originale “variazione sul tema” di Riccardo III, in cui i confini tra epoche e identità si fanno labili, sullo sfondo di una stessa realtà di ambizione, sete di potere, violenza repressa
Classe 1982, cofondatore, nel 2005, in Uruguay, della compagnia Complot – con cui ha creato una trentina di spettacoli, collaborando, tra gli altri, con Sergio Blanco – Gabriel Calderón è per la prima volta al Piccolo, dal 14 marzo al 6 aprile, sul palco del Teatro Studio Melato, per dirigere la produzione in lingua italiana di un suo lavoro di successo, Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III, protagonista Francesco Montanari. Ispirato al capolavoro di Shakespeare, il testo racconta la vicenda di un attore di teatro che non ha mai avuto la soddisfazione di interpretare un ruolo da protagonista. Ora che finalmente è arrivato il suo momento, desidera sfruttare al meglio l’opportunità. A poco a poco, si accorge di un’inquietante affinità tra la sua vita e quella del personaggio: ambizione, rabbia repressa, sete di riscatto, opportunismo… Interpretandone il celebre monologo, ritrova in se stesso i lati oscuri del sovrano di York. Da vent’anni impegnato sui palcoscenici del mondo, Calderón ci parla dei pericoli del palcoscenico, teatro di passioni violente, non sempre soltanto simulate, e affida a Francesco Montanari il ruolo del protagonista.
Uno sconfinato numero di allusioni al mondo animale affolla la scena shakespeariana nella sua globalità: geniale e feconda creatrice di visioni, l’immaginazione del Bardo si serve di caratterizzazioni zoomorfe per stabilire nessi e raffronti con la dimensione umana e sondarne gli obliqui anfratti della psiche. Ad esempio, nella rappresentazione dei mostruosi e sanguinari tratti dell’antieroe machiavellico Riccardo III, protagonista dell’omonima tragedia, emerge la figura del cinghiale, in una varietà di tracce – dalla funzione di stemma araldico all’impiego di traslati, come nel caso del sogno di Lord Stanley, ed epiteti – che racchiudono il valore emblematico dello specifico rimando ferino. Muovendo proprio da questo reticolo di corrispondenze, che si sedimenta in un vibrante monologo affidato all’intelligenza e all’energia interpretative di Francesco Montanari, il regista e drammaturgo uruguaiano Gabriel Calderón presenta, per la prima volta, un suo lavoro al Piccolo Teatro di Milano.
Originale “costola” del Riccardo III shakespeariano, Storia di un cinghiale gioca con l’espediente metateatrale in un tormentato percorso di introspezione e disvelamento che porta un attore a impersonare il ruolo dello spietato e repellente tiranno, e a riconoscere in sé passioni e impeti analoghi a quelli del monarca villain. Il cinghiale diventa così uno “specchio morale” dentro cui precipitano non solo i pensieri, i turbamenti e le recondite pulsioni dell’interprete in scena ma anche i nostri stessi occhi, nell’inestricabile viluppo dei contrastanti moti d’animo – del bene e del male – che definiscono la natura umana.
Claudio Longhi
Fare teatro per porsi domande
Conversazione con Gabriel Calderón
(dal programma di sala dello spettacolo)
Gabriel Calderón, partiamo dal titolo. Perché Storia di un cinghiale?
Il cinghiale è un simbolo, è un animale che riveste diversi significati nella storia di Riccardo III. Per prima cosa, è presente sullo stemma della famiglia York, la casata del futuro re. Secondariamente è bianco, un’eccezione, esattamente come lo è il cigno nero. Candido ma non meno temibile: incarna l’ambizione del potere, non manifesta particolare intelligenza, né destrezza fisica, non è il padrone della foresta, ma si distingue per la brutalità con cui si scaglia a tutta velocità in una precisa direzione.
Da dove nasce l’idea alla base del testo e dello spettacolo?
Lo spunto per scrivere Storia di un cinghiale mi è stato offerto da Gustavo Saffores, un attore uruguayano che è anche un mio grande amico, e dalla regista che voleva lavorare con lui [al Piccolo, Saffores è stato in scena in due spettacoli diretti dal drammaturgo e regista uruguayano Sergio Blanco, presentati nel 2022 all’interno del Festival Presente Indicativo: per Giorgio Strehler (paesaggi teatrali), ossia Cuando pases sobre mi tumba e El bramido de Düsseldorf]. Per dar seguito al loro desiderio, ho incontrato Gustavo, gli ho domandato quale ruolo avrebbe sempre voluto interpretare e lui mi ha parlato di Riccardo III. Personalmente, ho sempre pensato che il teatro non sia altro che una scusa per stare con gli amici e che proprio per questo sia il più bel lavoro del mondo: è un pensiero che si può capire meglio nel contesto uruguayano, dove non abbiamo un sistema teatrale professionale, e, per sopravvivere, svolgiamo mille altri mestieri. Di giorno, c’è chi va in banca, chi è professore a scuola, chi impiegato in azienda, ma quando arrivano le sette, le otto di sera, mentre tutti tornano a casa propria, noi, appassionati di questa strana professione, ci ritroviamo per far teatro fino a notte fonda. Inesorabilmente, arriva sempre un momento in cui ci domandiamo: «Ma perché, mentre tutti i miei amici se ne vanno a casa, dalle mogli e dai figli, io me ne sto qui a provare uno spettacolo? Che senso ha? Perché lo facciamo, se non ne ricaviamo neanche di che vivere?». Perciò, se lo si fa, deve essere almeno con persone insieme alle quali si abbia il piacere di stare e per le quali valga la pena rubare tempo alla famiglia. Non è il banale esercizio di fare del teatro un luogo di amicizia, semmai è l’opposto: è conferire valore al tempo condiviso facendo teatro. Nel caso specifico, poiché non era stato semplicemente un attore a cercarmi, ma un amico, ho pensato: vediamo se riesco a esaudire il sogno di una persona cara e, allo stesso tempo, se sono capace di sfidare me stesso in quanto autore, a riassumere un’opera tanto complessa come Riccardo III in un progetto per un solo interprete, raccontando anche tutto l’universo di sentimenti che si cela dietro all’ambizione di un attore che per tutta la carriera sarebbe voluto essere Riccardo III…
Che cosa rappresenta Shakespeare per te?
Le arti – e il teatro in particolare – per me sono come una barzelletta che dura troppo. Qualcuno la racconta in un dato momento, ma, non si sa bene come, finisce per attraversare i secoli arrivando fino a noi.
Probabilmente accadeva lo stesso a Shakespeare, che, all’epoca, cercava di sopravvivere, con i suoi amici e di certo non pensava: «Un giorno mi porteranno in scena al Piccolo, o in un paese dell’Africa…». Per la maggior parte del tempo, gli artisti combattono per risolvere problemi pratici, quotidiani, ma è anche vero che qualcosa di quello di cui ci parlano finisce per risuonare in altre ere e in altre geografie. Accade a Shakespeare come a chiunque si ponga un problema umano. Di quest’opera in particolare, ciò che produce un’eco nei nostri mondi è che tutti noi artisti ci impegniamo allo spasimo per ottenere qualcosa, nello stesso modo in cui Riccardo III si adopera, anima e corpo, per conquistare il trono. È bravissimo ad architettare tutto il piano per trasformare il suo sogno in realtà, ma una volta diventato re è incapace di mantenere il potere. Riccardo III è la grande metafora dei teatranti: siamo eccezionali quando creiamo qualcosa – lo spettacolo – che non durerà. Il teatro per il quale, ogni sera, do tutto me stesso scompare al calare del sipario. Ed è per questo che non vedrò mai più uno spettacolo di Strehler, uno di Ronconi, uno di quel tale regista africano che lo sta creando nel preciso istante in cui noi stiamo parlando: il teatro si perde nel tempo.
Perché hai pensato a un “teatrino nel teatro” e a questo tipo di costume?
Lo spettacolo racconta la storia di un attore che non ha mai avuto la possibilità di essere Riccardo III e finalmente l’ha ottenuta. Me lo sono immaginato come uno che sta ai bordi del palcoscenico, ignorato, uno che guarda gli altri interpretare grandi ruoli e deve sforzarsi di mantenere alto il livello delle particine che gli toccano; vede il pubblico andare a complimentarsi con i protagonisti, legge recensioni che non lo menzionano mai… Mi sono immaginato questa figura di attrice o di attore come una persona in disparte, ai margini. Così ho chiesto al team artistico, allo scenografo Paolo Di Benedetto e al costumista Gianluca Sbicca, di pensare a tutto quello che in teatro è stato tralasciato. Ai dispositivi che sono caduti in disuso – cordami, carrucole, legno… – perché sostituiti da altro. Ci troviamo al Teatro Studio Melato – che è come un piccolo Globe Theatre – e mi sono detto: «Perché non ripartiamo da un minuscolo teatrino di legno, da corde, fondali, parrucche, trucco, da tutti quei materiali che sono stati accantonati, che al nostro occhio contemporaneo appaiono superati?». È un tratto del mio carattere: non mi interessa “imitare la vita”, rifuggo dal realismo, per lo meno nella mia poetica. Se sono spettatore, non ho alcuna preclusione, ma quando scrivo e dirigo, amo recuperare linguaggi antichi, elementi “di scarto” ma ancora funzionanti: nulla è più bello di un sipario che si apre, di un tendaggio che si solleva. Non sono un conservatore: semplicemente, in teatro, il mio talento è quello del rigattiere, mi piace cercare il nuovo nell’antico.
Hai spiegato che lo spettacolo è nato da una speciale relazione che avevi con un attore. Come hai fatto e come fai, quindi, a riallestirlo in paesi e lingue diverse, con interpreti con i quali non possiedi una relazione tanto esclusiva?
È come fare piccoli “esercizi di amicizia”… Ogni volta che mi trovo a riallestire questo testo, non organizzo audizioni: do appuntamento al candidato in un bar e stiamo un po’ di tempo insieme. In quella circostanza, si capisce immediatamente se stiamo portando avanti la conversazione soltanto perché si tratta di lavoro o se invece è nata una reale sintonia. In teatro siamo tutti molto bravi a essere amabili, ragion per cui il tempo trascorre sempre in maniera gradevole; esistono però segnali, elementi che mi fanno capire se può nascere un’intesa autentica con un attore: con Francesco Montanari, i quaranta minuti inizialmente previsti per conoscerci sono diventati un’ora e mezza, in cui abbiamo parlato di tutto, di teatro, di vita, di altri testi, perché Francesco stava lavorando su Koltès, che è un autore che mi interessa molto. Io non parlo italiano, lui non conosce lo spagnolo, ma abbiamo comunicato in una sorta di lingua franca e il tempo è volato. È fondamentale che si stabilisca una relazione profonda e immediata tra attore e regista, perché il monologo è una forma teatrale molto esigente nei confronti di entrambi. Quando si lavora con una folta compagnia di attori e attrici, gli interpreti hanno delle pause e il regista si confronta con differenti tipi di energia. In questo caso, i poli dell’azione sono due soltanto, e se il gioco non funziona è un guaio.
Il tema non è dirigere uno spettacolo in una lingua diversa, ma dirigere un attore diverso: la lingua non è altro che il corpo che la incarna. È ovvio che io non imparerò l’italiano in poche settimane, ma apprenderò la lingua di Francesco, ciò che lui, con il suo corpo e con il suo modo di recitare, può fare. Il primo giorno di prove Francesco aveva già la memoria completa del testo, paradossalmente lo conosceva molto meglio di me che l’ho scritto. Si immagina che l’autore, in quanto tale, sia onnisciente, ma in verità l’attore conosce il testo molto meglio di lui! Perciò si instaura una sorta di strana competizione, in cui io, che sarei l’originale, mi ritrovo a inseguire l’attore, la copia, che conosce la mia opera a menadito e parla perfettamente una lingua che io non domino. Gli do delle indicazioni pensando a uno spettacolo recitato in una lingua non mia, e che sarà visto da un pubblico che la parla perfettamente… è una gara che sono destinato a perdere, ma che proprio per questo mi esalta!
Che sensazione ti dà essere al Piccolo?
Da uruguaiano, da cittadino dell’America Latina, penso di trovarmi in una condizione teatralmente utile di “periferia del mondo”. Non che con questo io voglia dire che il mondo abbia un centro: però è evidente che esistono forze, non solo determinate dal capitale, che comportano una differente qualità di vita nelle diverse aree del globo. Il teatro, per sua natura, è più vicino al margine, è una periferia che coltiva relazioni con il centro: i teatri elisabettiani erano collocati sull’altra sponda del Tamigi, ma sopravvivevano solo se avevano accesso al palazzo dei sovrani. Oggi accade lo stesso: noi teatranti non apparteniamo a una classe abbiente – oserei direi che non siamo neppure classe media – ma il nostro target è un pubblico dall’elevato tenore di vita. Siamo un sobborgo che al tempo stesso è parassita del centro, siamo attratti da classi sociali e mondi ben lontani dal nostro, anche se ci piace starne fuori, essere diversi, lavorare di notte, non dover timbrare il cartellino… Poi c’è una seconda questione, che sempre si verifica, in Uruguay, quando si portino in scena Shakespeare o Molière o Pirandello: sembra quasi esista un canone, un modo “giusto” di farlo. Ma prima di andare a capire che cosa significhi “fare bene” Shakespeare, dobbiamo pensare che siamo in Uruguay: chi vuoi che sappia che stiamo allestiamo il Bardo quaggiù? La cosa diviene più problematica qualora capiti di essere programmati in Europa, magari al Piccolo o al Festival di Avignone, ed ecco che arriva un esperto in letteratura inglese e ti dice: «Ah, si vede che lei ha una profonda conoscenza di Shakespeare!». Appare evidente che siamo tutti vittime di un equivoco e che qualcuno, da qualche parte, se la ride di noi. Al di là di tutto, il punto è che la strada scelta per uno spettacolo ha molto più a che vedere con la consapevolezza e la coscienza del proprio contesto, che non con un’autorità che, dall’esterno, ci attribuisca un attestato di conformità… La vera domanda, quella che tutti dovremmo rivolgerci, è: «Che cosa significa fare Shakespeare in questo momento, nella mia città?». E vale per tutti, per il teatro commerciale, per quello d’autore, in Malesia, in Europa, in America Latina, perché solo così si farà uno spettacolo che abbia senso. Essere al Piccolo, significa calpestare palcoscenici che altri, in epoche diverse, hanno calcato nutrendo analoghe preoccupazioni. Non penso al Piccolo come al teatro dal grande prestigio internazionale – che è fuor di dubbio. Penso, piuttosto, che questo teatro sia quello che è perché molti artisti, nelle sue sale, si sono chiesti: «Che senso ha fare teatro? Perché lo faccio?». Il mio compito è difendere quel dubbio. Adoro la contraddizione di un teatro che si chiama Piccolo ma è grandissimo! È un paradosso che mi sembra avere una grande eco shakespeariana: il maestro inglese scriveva opere consacrate a momenti grandiosi della storia – Enrico V, Giulio Cesare, Riccardo III… – ma poi li portava in scena in piccoli teatri, con una compagnia ristretta. Questa dialettica grande / piccolo è profondamente teatrale, perché tutti noi, quando lavoriamo a un progetto, pensiamo di stare facendo qualcosa di gigantesco, mentre in realtà il nostro lavoro è minuscolo… Terza cosa, esiste un rapporto profondo del Piccolo con il mio Paese: un grande maestro del teatro uruguaiano – Antonio Larreta – fu assistente di Giorgio Strehler per due anni, a metà degli anni Cinquanta. Oggi è il mio turno, il mio momento per aggiungere un mattone a quella storia, perché altri artisti uruguaiani possano venire dopo di me.
Nel tempo dalla globalizzazione, tutto si muove, tutto è sempre più interconnesso, tranne gli artisti che hanno meno opportunità di spostarsi. Poter vivere un’esperienza teatrale qui è condividere gli stessi problemi, sicuramente con abissali differenze culturali e sociali, ma ponendosi le stesse domande: «Piaceremo al pubblico? Venderemo i biglietti? Riusciremo a far spegnere i cellulari ai ragazzi?» Questa possibilità di uno scambio è una forma di resistenza anche più importante dello spettacolo che nascerà. La gente di teatro si impegna molto nella completa inutilità; al contrario, tante persone di potere – imprenditori, politici… – vogliono avere ma non intendono fare. Noi teatranti siamo un monito costante, che ricorda loro che la vita non è solo possedere e conservare, come in un museo delle cere, ma è perdere tempo nel mettersi alla prova insieme …. per non ottenere niente! Riccardo III è maestro nel tendere a qualcosa che non è capace di mantenere e questo fa sì gli rivolgiamo uno sguardo di umana comprensione. Ed ecco la meraviglia di Shakespeare: inventare un personaggio terrificante, che incute timore quando carica come un cinghiale, ma forse è migliore di quel che abbiamo sempre pensato.
OLTRE LA SCENA:
TEATRO IN PLATEA
I problemi del fare – masterclass con Gabriel Calderón
Gabriel Calderón, regista e autore di Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III, dedica al pubblico del Piccolo Teatro una masterclass di drammaturgia, tra pratica e teoria, legata ai “problemi del fare”. Non essere. Non sapere cosa fare. Non venire compresi. Una triade che rimanda al rapporto diretto dell’autore con la pagina bianca, ma anche all’identità dell’artista e alla sua capacità di saper cambiare di segno alle proprie debolezze. Perché scrivere significa anche «accettare tutto ciò che non siamo, tutto ciò che non sappiamo, per trasformare le nostre risorse imperfette in parte fondante della creazione».
Sabato 15 marzo, ore 11, Teatro Studio Melato
con Gabriel Calderón e Teresa Vila (traduttrice del testo)
CHI È DI SCENA?
Incontri pre-spettacolo a pochi minuti dall’andata in scena: un momento informale di confronto tra pubblico e operatori del teatro sui temi dello spettacolo.
Martedì 18 e giovedì 27 marzo, ore 18, Teatro Studio Melato
PAROLE IN PUBBLICO
Variazioni Shakespeariane: da Riccardo al “cinghiale”
L’opera di Shakespeare, fin dalle origini, è stata oggetto di variazioni, innesti e commistioni, ispirando varianti teatrali e, in epoca più recente, cinematografiche. Da queste premesse, Arturo Cattaneo, professore di Letteratura inglese all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, illustrerà alcune delle varianti e “contraffazioni” più significative di Riccardo III, avviando un confronto con Francesco Montanari, protagonista del monologo di Gabriel Calderón, dove la materia shakespeariana si stempera in un gioco di rifrazioni e travestimenti, trasformandosi una intensa meditazione sui meccanismi del teatro e della rappresentazione.
Mercoledì 26 marzo, ore 18, Chiostro Nina Vinchi
con Arturo Cattaneo e Francesco Montanari. Modera Anna Piletti
Piccolo Teatro Studio Melato (via Rivoli 6 – M2 Lanza), dal 14 marzo al 6 aprile 2025
Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III
liberamente ispirato a Riccardo III di William Shakespeare
scritto e diretto da Gabriel Calderón
traduzione Teresa Vila
scene Paolo Di Benedetto
costumi Gianluca Sbicca
luci Manuel Frenda
con Francesco Montanari
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Carnezzeria
foto di scena Masiar Pasquali
Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30; domenica ore 16.00.
Le recite dal 4 al 6 aprile sono sovratitolate in italiano e inglese.
Durata: 75 minuti
Prezzi: platea 40 euro, balconata 32 euro