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AUTORITRATTO di Davide Enia

25 Marzo @ 7:30 pm - 17 Aprile @ 7:30 pm

Foto di scena: Festival dei Due Mondi © Andrea Veroni
Foto di scena: Festival dei Due Mondi © Andrea Veroni

Al Teatro Grassi, dal 25 marzo al 17 aprile 2025

Davide Enia
Autoritratto

Tra orazione civile e racconto personale:
Cosa Nostra e la quotidianità del male

«A Palermo, tutti possediamo una costellazione del lutto in cui le stelle sono persone ammazzate da Cosa Nostra». Partendo dalla cronaca degli anni Ottanta e dalle bombe del ‘92, intorno alla quale costruisce una coinvolgente intelaiatura biografica, Davide Enia, artista associato, torna al Teatro Grassi – dal 25 marzo al 17 aprile – dopo la rappresentazione sacra di Eleusi, nel giugno 2023, per tracciare «un autoritratto intimo e collettivo» di una comunità costretta a convivere con la continua epifania del male.

A partire dallo spettacolo, Davide Enia firma
Autoritratto. Istruzioni per sopravvivere a Palermo
pubblicato l’11 marzo per i tipi di Sellerio

«Affrontare per davvero Cosa Nostra – racconta Davide Enia – significa iniziare un processo di autoanalisi. Non volere quindi capire in assoluto la mafia in sé, quanto cercare di comprendere la mafia in me.»
Intrecciando cunto e parole, corpo e dialetto, «gli strumenti che il vocabolario teatrale ha costruito nella mia Palermo», Enia esplora quella che definisce la nevrosi dei suoi concittadini nei confronti della criminalità organizzata: «Per diverse ragioni, da noi la mafia è stata minimizzata, sottostimata, banalizzata, rimossa o, al contrario, mitizzata. Ovvero: non è mai stata affrontata per quello che è.»
Lo spettacolo racconta i continui incontri con Cosa Nostra: i cadaveri incontrati per strada, le persone conosciute uccise dalla mafia, le bombe in città, l’apparizione del male, «il sacro nella sua declinazione di tenebra», alla quale l’artista risponde con «un lavoro che è una tragedia, un’orazione civile, una interrogazione linguistica, un processo di autoanalisi personale e condiviso. Un autoritratto al contempo intimo e collettivo.»
Nel suo romanzo d’esordio, Così in terra (2012), Davide Enia scriveva: «Se c’è una cosa che la Mafia non ha, ed è quello che prima o poi la fotterà, è la capacità di capire la bellezza». Ed è proprio la bellezza – intesa non come vuoto estetismo, sfoggio esteriore di artifici, ma come capacità di fare a meno del “superfluo” per andare dritto al cuore della realtà – a contraddistinguere da sempre il percorso artistico dello stesso Enia, animato da una palpitante e urgente passione etico-civile e sorretto da una vivida architettura epico-corale.
Ne è ulteriore prova quest’ultimo lavoro, Autoritratto: distillato purissimo di una tradizione monologante che si radica nel cunto e risplende in una partitura di suoni e ritmi, dove le parole si sposano con i gesti e i silenzi, perché – secondo un adagio palermitano spesso ricordato da Enia – «’a megghiu parola è chìdda ca ’un si rìce» («la miglior parola è quella non detta»). Il lavoro di Enia vive, riluce, si innerva del patrimonio espressivo del dialetto siciliano, atto d’amore per la propria terra e la propria lingua: e, in quanto tale, manifesto di denuncia che, con lucido rigore e umana pietas, scava tra le devastazioni di Cosa Nostra, presenza pervasiva e insieme fantasmatica.
Con la sua testimonianza, Enia racconta una storia che è di tutti noi: ci aiuta, così, a cambiare il nostro respiro e a liberarci dagli effetti anestetizzanti dell’epoca del «trauma senza trauma» (Daniele Giglioli). C’è in lui una maestria antica – e, dunque, profondamente contemporanea – che lo porta a incarnare quanto lo studioso di teatro Claudio Meldolesi affermava a proposito dell’attore in scena: «non è fino in fondo un uomo dell’attualità; […] egli avvicina il pubblico con sapienza lontana. L’attore ci offre una dimensione primitiva del presente».
Claudio Longhi

Autoritratto di una generazione
Conversazione con Davide Enia
(estratto dell’intervista per il programma di sala dello spettacolo)

Perché, dopo venticinque anni di lavoro teatrale, oggi hai sentito la necessità di portare in scena uno spettacolo in cui parli dell’impatto che la mafia ha avuto sul tuo personale vissuto?
Autoritratto è una riflessione sulle strutture linguistiche che hanno costruito il deposito di inconscio collettivo della realtà in cui sono nato e cresciuto. Racconta il rapporto nevrotico di un intero bacino culturale, quello del Mediterraneo – nel caso specifico la città di Palermo – con Cosa Nostra. La parola nevrosi riassume l’atteggiamento di chi ha sottostimato Cosa Nostra, l’ha minimizzata, l’ha banalizzata, l’ha negata, l’ha rimossa o l’ha mitizzata: si è fatto di tutto, insomma, pur di non affrontarla per quello che era. Diventa quindi una riflessione, l’ennesima, sull’atto della scrittura e sul dispositivo del teatro: perché scrivere un testo che parla di Cosa Nostra pensato per la scena? Perché mi interessa il movimento che è proprio del teatro: riuscire, astraendosi dal tempo della rappresentazione, a condividere un’esperienza che impatta, a livello comunitario, sulla coscienza collettiva e, al tempo stesso, sull’esperienza intima di ogni singolo spettatore e spettatrice. Parlo di alcuni episodi cruciali della storia d’Italia che coincisero con le settimane del mio esame di maturità: le bombe che uccisero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vicende sulle quali, ancora oggi, non è stata stabilità la verità dei fatti. Diceva uno dei miei compagni di scuola di allora: come si può vivere nel Paese delle mezze verità? Noi sappiamo benissimo – è il teatro che ce lo insegna – che la verità è sempre innominabile e richiede la mediazione artistica perché ne affiorino i contorni, perché emerga dai luoghi dell’inconscio. Così, con Autoritratto, spogliamo i teatri, li lasciamo vuoti, privi di quinte, quasi fossero il deposito dell’inconscio. Non sappiamo che cosa troveremo su ogni singolo palcoscenico, come non sappiamo che cosa si annida nell’intimo di ciascuno di noi: ne scorgiamo dei segni, che è necessario nominare perché possa avere inizio l’opera di cicatrizzazione. Tutto questo per dire che Autoritratto è l’ennesimo lavoro che si inscrive nella logica del rituale, della necessità di dare un nome alle cose perché possano essere risolte, superate, affrontate e quindi, finalmente, abbandonate.

Come hai costruito la drammaturgia dello spettacolo?
Nel lavoro di ricerca per Autoritratto, oltre a consultare la sterminata letteratura sul tema, ho parlato a lungo con i miei coetanei di allora, tutte persone che vissero a Palermo in quel tempo. Ho avuto inoltre il privilegio di incontrare tre funzionari, ora in pensione, della DIA, la Direzione Investigativa Antimafia. Perciò anche questo, come tutti i miei lavori – ma come, credo, ogni testo che viene scritto – è un’operazione plurale, sempre filtrata dalla soggettività di chi scrive, che prende la responsabilità di firmare o a volte “si appropria” delle parole di altri. È un lavoro che non può prescindere dalla pluralità delle voci, anche perché, in un momento dello spettacolo, lo dichiaro in maniera molto trasparente: io non ho memoria alcuna del 23 maggio 1992, del giorno in cui Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta furono uccisi. In una città in cui tutti si ricordano dov’erano in quel momento, cosa stavano facendo e con chi, io sono stato sicuramente attraversato da un carico emotivo di tale portata che mi ha trapassato e svuotato. Così, per quella parte dello spettacolo, mi sono aggrappato ai ricordi degli altri, mentre ho ricordi precisi, come racconto, di tutto il resto. Un altro elemento riguarda la dinamica di relazione che abbiamo a Palermo: i “gradi di separazione” tra noi e quei nomi sono pochissimi. Padre Pino Puglisi non è stato il mio professore di religione: lo è stato di migliaia di ragazzi e ragazze che frequentavano il liceo Vittorio Emanuele II; se io abitavo di fronte alla casa di Paolo Borsellino, altri vivevano nella strada del giudice Falcone; io racconto di aver visto a otto anni, tornando da scuola, il primo morto ammazzato, ma se non l’avessi visto io, sarebbe toccato a mia madre, a mio padre o a mio fratello, perché di questi numeri, di queste entità si parla…
Si chiama Autoritratto ma a parlare è un’intera generazione, che in quegli anni stava diventando maggiorenne, un’intera città, un intero bacino culturale che prova in qualche modo a confrontarsi con quanto è accaduto, a richiedere con urgenza che venga raccontata la verità di quegli eventi. Fino a qualche anno fa non mi ritenevo pronto ad affrontare un tema così capitale, per la costruzione linguistica dell’essere umano, che si fonda su tutta quella foresta di simboli, ipotesi e prospettive, di luoghi bui e baratri che vive dentro di noi perché ero ancora troppo vicino alle vicende di cui avrei dovuto parlare: il filtro del tempo permette allo sguardo di farsi chirurgo, consente di non essere sconvolti trovando tratti di somiglianza con quello che si vorrebbe fosse il più lontano possibile da noi. È ovvio – come lo è stato per un altro mio spettacolo, L’abisso – che se non avessi fatto terapia per dieci anni non avrei avuto gli strumenti per riuscire a rianalizzarmi e ad ascoltare anche le voci delle persone che mi parlavano, voci che con enorme generosità mi hanno offerto prospettive nuove e hanno trovato le parole che io stesso non riuscivo a far emergere dall’oscurità che ho dentro.

Che cos’è, per te, Palermo?
Palermo è una città che o si vive con immediata ostilità epidermica o ti irretisce in maniera viscerale e ti lascia a terra innamorato in un lago di sangue: io faccio parte di questa seconda schiera di persone. È una città che, a volte, alimenta dentro di me molta rabbia; è piena di occasioni perdute, ha talento, una fortissima commistione multiculturale e un’enorme carica di energia fertile. Non è una città morta, nonostante attraversi nuovamente un periodo di crisi. Sta subendo una violentissima turisticizzazione di massa, ma continua ad avere grandi riserve di vitalità, che sgorgano tutte dal basso, da ragazzi e ragazze che s’impegnano tantissimo nel volontariato. Io avevo semplicemente un bisogno disperato di tutta quell’energia: c’è molto egoismo nel mio essere tornato, da Roma, a vivere a Palermo che, dal punto di vista artistico, non avevo però mai abbandonato.

Come hai lavorato, con Giulio Barocchieri, alla parte musicale dello spettacolo?
Affronto ogni operazione di scrittura – sia essa una drammaturgia, una semplice regia o un romanzo – come fosse una sinfonia, un organismo compatto che, al suo interno, ha momenti di pausa e di accelerazione, temi che ritornano, con uno sviluppo lineare, anche se poi, quella linea tende a divenire sempre un cerchio… Pensando ad Autoritratto, avevo chiaro che gli interventi musicali di Giulio Barocchieri avrebbero avuto il suono dei primi anni Novanta, dei Portishead per capirci; un suono elettronico, sporco, perché sporca è quella realtà, difficile da decifrare, priva di nitidezza, torbida, cattiva. Gli altri suoni sono quelli che il corpo può ricreare cercando di spostare immediatamente la geografia del presente della sala in un altrove che è Palermo. Ci sono le abbanniate, le urla dei venditori, che immediatamente ti fanno pensare di trovarti al mercato di Ballarò. Sono nate il primo giorno di prove, quando ho iniziato ad abbanniare insieme a Giulio e Ciccio (Francesco) Vitaliti, che cura il suono dello spettacolo. Loro mi hanno registrato e poi abbiamo trascorso un giorno cercando di trascrivere quello che avevo detto, che era incomprensibile perché volevo confondermi con la voce di un muezzin dal minareto, come se davvero si trattasse di qualcosa che ti trasporta in un altrove… In un altro momento dello spettacolo, dopo una scena terribile – la deposizione processuale relativa all’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo – non sapevo come proseguire: ne usciamo con un’abbanniata prima, poi con una pagina musicale di Giovanna Marini, che è sempre stata un po’ la mia “Diego Armando Maradona”… È un Miserere che cantiamo innestandolo in un percorso di profanazione del sacro o sacralizzazione del profano, perché i suoni possiedono già il nucleo del significato, sono il significante in grado di slabbrare la percezione del presente per entrare emotivamente in chi ascolta, facendogli comprendere il calibro esatto del sentimento che si sta provando a descrivere.

Parlaci ancora delle abbanniate
Le parole della prima abbanniata che pronuncio non sono casuali, tutt’altro. Dicono: «Affacciatevi, tutti quanti, uscite sul balcone, scendete in strada che devo vendere le cose, domani non ci sono, non mi trovate più, ho le quaglie, ho cose da mangiare, ho cose che non ho, ho cose che neanche desideri, ho cose che non sai e se non le compri devi buttare il sangue». Era interessante: un’antica tecnica pubblicitaria di vendita molto cruda, ma che racconta in poche parole Palermo. Ce n’è poi un’altra, che ho scritto io, che dice: «Che sono belle queste cose, le ho portate io, che al mondo non c’è nessuno bello come me, quanto sono bello!» Mi piaceva questa sorta di auto incensazione dell’abbanniatore: inizia Giulio e poi, sempre attraverso le abbanniate, cominciamo a costruire un mercato. È un momento che si inscrive anch’esso nella ritualità: l’unica parte di spettacolo ogni sera diversa è il racconto dell’esplosione in autostrada, a Capaci.
Qui abbiamo un rapporto davvero “uno a uno” tra frantumazione del reale e frantumazione del discorso: la frase non riesce più a chiudersi, è sbriciolata dal cunto che è quello spazio di abbandono totale al mistero presente in ogni mio lavoro. Non riesco e non voglio predeterminare tutto l’organismo dello spettacolo: mi lascio sempre una finestra, uno spiraglio per abbandonarmici e scoprire quello che accade. È uno spiraglio da cui, il più delle volte, non filtra luce, bensì m’investe l’orrore di polvere e plastica bruciata, della terra massacrata di quei giorni del mio esame di maturità, dei miei diciotto anni, di una Palermo militarizzata [l’operazione Vespri Siciliani, N.d.R.] completamente riempita di ragazzini di vent’anni, sotto il sole con i mitra spianati.

Con Eleusi, andato in scena la scorsa stagione per 24 ore, in contemporanea al Teatro Grassi e al Teatro Studio Melato, avviasti una riflessione sull’intreccio tra il sacro e il male nell’esperienza umana. Questo nuovo spettacolo prosegue quell’esplorazione?
Il lavoro su Autoritratto come sugli altri miei testi ci porta, per chi vuole, a un livello di accettazione del fatto che è necessario reimmettersi in dinamiche di ritualità per riuscire a comprendere il piano di realtà che abitiamo. Il teatro è un rituale, lo è da parte di chi ne fruisce in quanto pubblico, vestendosi e uscendo di casa per andare in una sala, pronto ad accettare la logica della finzione; lo è da parte di chi lo pratica, ritualmente svegliandosi, mangiando a un determinato orario, seguendo un preciso training fisico che è anche palestra emotiva. E quando il teatro accade, si manifesta quel mistero che mette assieme la parte che sta fruendo con quella che sta agendo, per trasportare tutti quanti in un altrove.
Il tema del sacro è presente in tutti i miei spettacoli: lo era in Italia-Brasile 3 a 2 [riproposto anche al Teatro Grassi, nella stagione 2022/23, N.d.R.], dove compariva la logica sacrale dell’effimero del gioco del calcio, dove i vivi e i morti erano insieme, nel comune ricordo della partita; il sacro era istinto di sopravvivenza in Maggio 43 [al Chiostro Nina Vinchi e nei municipi milanesi nell’estate 2020; al Teatro Grassi nella stagione 2020/21, N.d.R.]; in Eleusi abbiamo provato a edificare, tutti quanti assieme, una cattedrale che servisse da contraltare agli orrori che furono perpetrati tra le mura di via Rovello. Qui il sacro emerge nella sua declinazione di tenebra. Sacro è una vox media: indica tanto ciò che tende alla luce, quanto ciò che sprofonda nella tenebra. Il punto è che, se si coltivano una terra, una città, una regione con i semi della ferocia e della violenza, della soperchieria e dell’omertà, inevitabilmente, prima o poi, il male apparirà. L’unico mezzo per arginarlo è l’inserimento in una ritualità: non è così diverso dalla pratica quotidiana dell’atleta che si esercita a saltare l’asta, a correre i 200 metri, a stoppare il pallone o a ripetere le bracciate in piscina. Il rito non è altro che reiterare gesti, sillabe, suoni, per far scoccare la scintilla, senza pietra focaia, quando ci sia bisogno di fuoco. Il rito è imprescindibile dal confronto con chi sono io in quanto individuo, con chi siamo noi come comunità, di pari passo con la necessità di comprendere perché stiamo facendo teatro, perché privilegiamo questo mezzo espressivo e non un altro… Scelgo di portare in teatro Autoritratto perché mi interessa una riflessione collettiva e comunitaria, ma contemporaneamente intima e personale; nel momento in cui si dà il teatro, siamo sospesi dalla schiavitù del tempo e iniziamo a tessere il deposito di ciò che fu – il passato – con la prospettiva della speranza – il futuro –: questa tessitura è ciò che chiamiamo presente.

OLTRE LA SCENA:

| SEGNALIBRO
Presentazione del libro Autoritratto | Istruzioni per sopravvivere a Palermo
Le parole di Davide Enia corrono sul palcoscenico ma anche “furiose” sulla pagina scritta «tra le strade e i vicoli di una città assuefatta al silenzio come al boato delle bombe». Autoritratto | Istruzioni per sopravvivere a Palermo è, infatti, anche un libro, edito da Sellerio nella collana “il divano”, che Enia presenta con Lorenzo Gramatica (Lucy. Sulla cultura) presso la Libreria Verso, il giorno prima del debutto.
Evento organizzato da Verso Libri e Sellerio Editore in collaborazione con Lucy. Sulla cultura
Lunedì 24 marzo ore 19, Verso Libri, Corso di Porta Ticinese 40
con Davide Enia, Lorenzo Gramatica

| PAROLE IN PUBBLICO – per filo per segno
Il regno dei discorsi incompiuti
«Cosa Nostra è il regno dei discorsi incompiuti»: un’invisibilità delle intenzioni – spiega Davide Enia cercando di interpretare la definizione di Tommaso Buscetta – finalizzata a una non assunzione di responsabilità. Autoritratto, al contrario, è un «processo di autoanalisi personale e condiviso» capace di aprire le porte a una riflessione ampia e stratificata (che nulla vuole rimuovere o lasciare in sospeso) su come la mafia abbia condizionato la psicologia di un’intera nazione e, soprattutto, dei suoi cittadini. Trauma, silenzio, nevrosi diventano allora i nodi da cui partire in questo incontro di “per filo e per segno” che vede in dialogo Davide Enia, Nando Dalla Chiesa, professore di Sociologia della criminalità organizzata presso l’Università di Milano, dove dirige anche l’Osservatorio sulla criminalità organizzata e Camilla Giraudi, psicoterapeuta specialista in Psicologia clinica e psicoanalista SPI e IPA.
Modera Roberta Carpani, docente di Discipline dello Spettacolo presso l’Università Cattolica di Milano.
Venerdì 28 marzo ore 18, Chiostro Nina Vinchi
con Davide Enia, Nando Dalla Chiesa, Camilla Giraudi. Modera Roberta Carpani

CHI È DI SCENA?
A pochi minuti dall’andata in scena, gli spettatori incontrano gli operatori del teatro, per approfondire, tra riflessioni, aspettative e curiosità, lo spettacolo che stanno per vedere.
Giovedì 3 e 10 aprile, ore 18, Teatro Grassi

| STORMI #6
Qual è il tuo potere? – Mafia e potere tra cinema e rappresentazione
Dal Padrino di Marlon Brando fino al Traditore di Pier Francesco Favino, cinema e televisione hanno spesso offerto ritratti ambigui – affascinanti tanto quanto pericolosi – dei capi delle organizzazioni criminali: un esercizio di rappresentazione che ha contribuito a scolpire, talvolta cristallizzare l’immaginario collettivo, nel bene e nel male. In occasione della presentazione del nuovo numero di STORMI, dal titolo Qual è il tuo potere?, Davide Enia e Cristina Battocletti, scrittrice, giornalista per la “Domenica” del “Sole 24 Ore” e critica cinematografica, dialogano intorno ai modi in cui sono stati dipinti i volti del potere mafioso, e di ciò che quei volti rivelano di noi osservatori. Modera Alessandro Iachino.
Mercoledì 16 aprile ore 18, Chiostro Nina Vinchi
con Davide Enia, Cristina Battocletti. Modera Alessandro Iachino

Piccolo Teatro Grassi (via Rovello, 2 – M1 Cordusio), dal 25 marzo al 17 aprile 2025

Autoritratto
di e con Davide Enia, musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri
luci Paolo Casati, suono Francesco Vitaliti
si ringrazia per gli abiti di scena Antonio Marras
coproduzione CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia,
Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Accademia Perduta Romagna Teatri, Spoleto Festival dei Due Mondi
con il patrocinio di Fondazione Falcone
Per le immagini © Fondazione Festival dei Due Mondi, foto Andrea Veroni

Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì ore 20.30 (salvo 9 aprile, riservata scuole);
domenica, ore 16. Lunedì riposo.

Durata: 90 minuti senza intervallo
Prezzi: platea 40 euro, balconata 32 euro
Informazioni e prenotazioni 02.21126116 – www.piccoloteatro.org

Dettagli

Inizio:
25 Marzo @ 7:30 pm
Fine:
17 Aprile @ 7:30 pm
Categoria Evento:
Sito web:
https://www.piccoloteatro.org

Luogo

Piccolo Teatro Grassi
via Rovello, 2 – M1 Cordusio
Milano, 20121 Italia
+ Google Maps
Phone
02.21126116
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