L’intervista del 18 ottobre scorso a Lecce della redattrice Gaia Gulizia, coadiuvata da Paola Raimondi, al fondatore di Odin Teatret, compagnia multiculturale nata a Oslo nel 1964 e in seguito stabilitasi nella città danese di Holstebro
GAIA GULIZIA – Buongiorno Eugenio, grazie innanzitutto per averci concesso questa intervista. Come si potrebbe racchiudere in essenza, in un’unica parola, l’esperienza dell’Odin Teatret?
EUGENIO BARBA – Un atteggiamento profondamente politico, intendendo per “politica” la nostalgia di cambiamento.Come realizzare questo cambiamento partendo da se stessi e dalle persone più vicine? Non pensando in grandi categorie: l’umanità, il mondo, la società, ma dalle relazioni che ci sono più prossime, quindi il posto di lavoro. Ed ecco, l’Odin Teatret è stata per me la possibilità di realizzare questa nostalgia di libertà, di cambiamento, e soprattutto di gentilezza.
Il mondo dorme. Nonostante il rigore che uno si impone per raggiungere una qualità e un livello artigianale che va al di là della tecnica, in un mondo o in una natura di relazioni, dove la parola gentilezza è essenziale, penso che le persone che vedono gli spettacoli dell’Odin, con tutta la loro rabbia, con tutta la loro violenza, con tutta la loro insofferenza…di sentimento quasi, contro o verso tutto quello che avviene intorno a noi, possono notare l’essenza di questa tempesta emotiva: è la nostalgia di un mondo gentile.
G. G. – Uno dei passaggi che mi è rimasto impresso del libro Teatro: mestiere, solitudine, rivolta (scritto da Eugenio Barba e pubblicato per la prima volta nel 1996, NdR), insieme a innumerevoli altri, è «Essere in presenza e ricevere l’altro».
E. B. – Tutto questo è dovuto alla mia esperienza di migrante, che aveva perso la lingua e viveva in un mondo “stupido”, come uno stupido: quando non riesci a comprendere quando una persona ti parla – ero in Norvegia – è come se le intonazioni, la musicalità della voce diventassero l’enigma che devi decifrare: cosa ti sta comunicando questa persona? Ti accetta o non ti accetta? È ironica, rifiuta? Soprattutto, come migrante, come straniero, ho potuto sperimentare, vivere la grande generosità dell’essere umano.
Incredibile vedere quanto è generoso l’essere umano, e nello stesso tempo quanto è crudele, orribile, nel momento in cui si manifesta l’altro lato della gentilezza, che è il razzismo; e ce n’è moltissimo: io ho vissuto molto il razzismo contro di me, erano gli anni ‘50/’60, quando gli italiani erano molto disprezzati all’estero, a causa del fascismo, della sua guerra mondiale.
Quindi è tutto questo, queste esperienze degli esseri umani che ho incontrato con una natura complementare…si può andare da un lato all’altro: puoi incontrare il nazista che è estremamente gentile e ospitale e puoi incontrare la persona che si spaccia per essere filantropo, e in realtà si comporta in maniera ignobile.
Quindi sì, è da questa esperienza decennale come emigrante che nasce tutta questa nostalgia di politica o di cambiamento.
G. G. – Quindi si tratta di una comunicazione che va oltre le barriere linguistiche, oltre ogni apparente diversità.
E. B. – Esatto: esiste un’altra forma di comunicazione, che non passa per le parole. Lo sentiamo tutti noi, quando abbracciamo qualcuno, quando vediamo un bambino che corre verso i genitori, o una madre che stringe al petto il suo neonato… Credo che l’essenza delle nostre nostalgie, dei nostri desideri più intensi è muto, è ineffabile, non può essere detto.
G. G. – In effetti nella pratica del training degli attori dell’Odin Teatret ho subito trovato un parallelo con il lavoro dell’essere umano su se stesso che si prepara ad aprirsi all’altro, che nel processo stesso lo fa.
E. B. – Io penso che è per questo che negli spettacoli dell’Odin gli attori sempre si mettono a cantare: perché quando uno non può più dire con le parole, passa un linguaggio emotivo, che è il canto.
G. G. – Sì, lo abbiamo sperimentato anche ieri… mi sono commossa (rif. Alla dimostrazione di lavoro di Else Marie Laukvivk, NdR).
Quando contano le relazioni umane in un percorso così lungo come quello dell’Odin Teatret?
E. B. – Penso che sono le relazioni che decidono dei nostri atteggiamenti verso la vita, delle nostre decisioni, del modo di accettare o di rifiutare altre persone, determinate situazioni. Tutto un habitat, un ambiente di lavoro è plasmato dalla qualità, dalla natura delle relazioni.
Ancora una volta questa parola, “gentilezza”, che Bertolt Brecht considerava come l’ideale di una società differente: parlava di freundlichkeit, di amichevolezza, di essere amici, di essere gentili.
Alla fine è il modo in cui i tuoi genitori ti hanno trattato, i tuoi maestri ti hanno trattato, come il tuo primo amore ti ha trattato… tutte queste relazioni incidono e determinano quello che siamo noi oggi.
G. G. – Ho sempre sentito – ed è per questo che da subito e per tutto questo tempo il vostro lavoro è stato un faro – che il fare teatro fosse in qualche modo un “pretesto” per incarnare un percorso umano da offrire.
E. B. – Sì…non ci ho mai pensato, ma in realtà si può dire che tutto quello che l’Odin Teatret ha sempre cercato di fare era… di essere gentili.
PAOLA RAIMONDI – Non dimenticherò mai questa intervista!
G. G. – La più bella in assoluto!
(Eugenio ride…)
E. B. – A questo si riduce! tutti dicono: «originali! Leggendari!». invece hanno cercato di essere gentili!.
G. G. – La semplicità e l’essenzialità che sono la cosa più importante in assoluto.
E. B. – Penso che uno non può su comando essere gentile, come uno non può su comando essere umile; è come se l’umiltà ti viene da un atteggiamento verso la vita, e lo stesso la gentilezza.
Però si può apprendere. Credo che il modo come io ho obbligato i miei attori a comportarsi quando entrano in sala di lavoro, una forma di silenzio, una forma di rispetto verso questa altra realtà che non è quella quotidiana dove ognuno di noi deve affrontare il momento della creazione; il momento della creazione è un momento dove tu ti confronti con te stesso, stabilisci una relazione con lo spazio interiore, e cerchi di trasporre quello che vuoi o credi di poter dire in segni fisici, vocali, che permettono a chi li ascolta di ritrovare un eco, una risonanza nella propria esperienza, che non ha nulla a che vedere con la comprensione: “sono d’accordo”.
G. G. – Non ha nulla a che vedere con la comprensione razionale…
E. B. – Esatto, sì.
P. R. – Quindi mi sembra di aver inteso che lei intende dire che ci si può allenare alla gentilezza.
E. B. – Sì, indubbiamente.
G. G. – Come in un training!
E. B. – Apprendere a comportarsi in un certo modo. Non è che venga detto in maniera esplicita, ma è come se tu dovessi trattare gli altri come se fossero di vetro. A volte il vetro, quando qualcuno lo scheggia, pam!… basta una nota falsa, e qualcosa si rompe.
Basta una parola sbagliata, di troppo, e la relazione si rompe.
G. G. – …. e mi permetto di dire che Eugenio Barba ha un potere grandissimo di usare le parole in modo gentile e….possiede l’arte della parola. L’ho pensato ascoltando, leggendo. Quindi si può dire che la parola, nonostante la comunicazione vada oltre il verbale, è importante per come viene usata. Qual è il ruolo dell’arte e dell’artista per la comunità umana, e come si può attuare una politica della bellezza e della gentilezza?
E. B. – Quando ero giovane credevo che essere artista comportasse anche un atteggiamento verso gli altri, verso la società. Ai tempi ero comunista, quindi volevo cambiare la società attraverso il teatro.
Poi ho scoperto che tutto questo in realtà non mi interessava molto. Lo potevo dire, ma non era il mio primus moto del fare teatro: il mio fare teatro era essenzialmente una difesa, come nascondere la mia differenza da emigrato, di straniero, dietro una maschera o un ruolo che ha un po’ più di prestigio di un semplice operaio emigrato: quindi, l’artista.
P. R. – Beh, ha trasmutato il piombo in oro…
E. B. – Ma non perché volevo. Credo che, esattamente come noi siamo espressivi malgrado noi stessi, tutto quello che ho raggiunto è malgrado me stesso, perché quello che in fondo volevo era arrivare ad un altro grado di esperienza, facendo teatro. Ma, attraverso il teatro, non la spiritualità….attraverso un rigore tecnico. Mi ha sorpreso, vedere come attraverso un rigore tecnico improvvisamente le mie attrici, soprattutto le donne, hanno cominciato a mostrare tutta un’altra gamma espressiva che mi ha sconvolto. Però non è qualcosa che tu puoi dirigere in maniera razionale o cosciente. É come se….è un po’ come andare alla cieca, non si è mai sicuri che il risultato sarà quello che tu speri: è come se uno costruisse un aereo e sperasse che questo aereo voli.
P. R. – Perché le donne, secondo lei, di più?
E. B. – Io credo che le donne siano più vulnerabili, si difendano di meno, ma in realtà siano molto più coraggiose e più forti degli uomini. Ma forse perché io sono influenzato da mia madre, che era una vedova, che era poverissima dopo la guerra, quindi i miei modelli di donna sono delle donne molto molto capaci di lottare e di non lasciarsi abbattere. Mia madre, e tutte le mie attrici.
Quindi… io mi sono spesso domandato perché: gli attori sono dei lottatori, però le donne hanno una marcia in più. Questa è la mia esperienza.
Quando una donna ha una marcia in più, normalmente gli uomini hanno paura: è terribile avere una marcia in più, per il proprio compagno, raramente il compagno lo accetta.
G. G. – Entriamo nel tema dell’Incontro …
E. B. – Entriamo nel tema della tragedia! (ride).
G. G. – Cosa significa, fare teatro? C’è un filo rosso che ne contraddistingue il senso nel tempo?
E. B. – Per me fare teatro è soprattutto creare un microcosmo di relazioni dove io mi sento bene, anche se sono stanco, anche se sono depresso perché non riesco a stimolare me stesso e a stimolare gli altri, anche se c’è – col tempo, soprattutto – un senso di déjà vu – “questo l’ho già fatto, questo l’ho già visto” – rimane proprio il piacere di andare a incontrare questo mondo, non lo chiamerei “piccolo mondo antico”, ma …..”piccolo mondo gentile”.
Per cui questo del gruppo ha avuto per me un profondo senso, cioè è stata la mia * (23’). Io dico, bisogna avere delle radici, ma queste radici debbono essere in cielo, non in una terra.
É questo che voglio dire: il gruppo di teatro sono individui che tutti in realtà fuggono da qualcosa, però si incontrano in questa nostalgia di mantenere la propria differenza, la propria diversità, il proprio individualismo, e nello stesso tempo superarlo, attraverso un artigianato che obbliga alla collaborazione.
G. G. – Mi collego con una domanda che è sorta proprio pensando alla figura dell’albero, alle radici e ai rami, ma che si potrebbe tradurre anche con “casa” e “viaggio”: qual è la radice del teatro, e in quale direzione possono volgere i suoi rami? Qual è la casa, e qual è il viaggio?
E. B. – Io credo profondamente che la radice del teatro è il profitto. Quando il teatro professionista viene creato in Europa, nel 1540 – ‘45 le prime compagnie lo fanno per presentare degli spettacoli e intrattenere le persone. Si dividono tra di loro i guadagni, il primo documento è un contratto.
Il teatro non proviene da Atene, la città che ha inventato questa stranissima cerimonia, dove gli spettatori erano pagati dalla città: erano obbligati ad andare, e siccome perdevano tre giorni – il teatro durava cinque giorni durante l’anno, durante le feriae dionisiache – durante questi cinque giorni andavano a vedere tre drammaturghi scelti da una commissione; questi drammaturghi dovevano essere anche attori e scrittori, e dirigere: c’erano due o tre attori, e poi c’era un coro.
Siccome la gente non poteva andare a lavorare, lo stato li “compensava”, dando i famosi oboli.
Ora, non è questo il teatro, anche perché ignoriamo tutto, del teatro greco: come recitavano, come cantavano…quello che invece noi conosciamo è quello che in Italia si chiama Commedia dell’Arte, e poi c’è Shakespeare, c’è Moliere, ci sono queste grandi compagnie che “inventano” il teatro. Questo teatro, che ha un DNA specifico, da un lato deve dare profitto, economico, quando improvvisamente arrivano le sovvenzioni, oppure deve avere un altro profitto: deve essere redditizio dal punto di vista di una qualità artistica che viene giudicata da una commissione, o dagli algoritmi, oggi.
Se tu vivi in una dittatura che ti finanzia, come faceva per esempio il nazismo o il comunismo, che ti finanzia totalmente, devi essere redditizio dal punto di vista ideologico; quindi da un lato devi essere redditizio, o a livello economico o artistico, dall’altro l’altra elica di questo DNA è la caducità, la provvisorietà delle relazioni: non esistono nel teatro relazioni che durano a lungo. Esistevano in passato le compagnie che firmavano un contratto, due anni, e poi… il primo che sogna di creare un ensemble che duri, perché le persone si riuniscano per un’affinità estetica, di visione di vita, spirituale…è Stanislavskij.
E. B. – Però non esiste nulla del genere nella storia del teatro moderno, anche quando il teatro comincia a sviluppare una metafisica: andare al di là di quello che è l’obiettivo “grado zero”, cioè intrattenere lo spettatore, non annoiarlo.
Improvvisamente vengono e dicono: «il teatro è un veicolo etico, terapeutico, spirituale, politico, può cambiare la società…» cioè, improvvisamente si dà al teatro un plusvalore che non aveva mai avuto prima, e
viene chiamata addirittura “arte”: è stato Stanislavskij che comincia ad utilizzare questa parola, che faceva ridere tutti quanti.
Il teatro, lo sappiamo tutti, è ritenuto un mestiere dove le donne sono delle prostitute, dove è pieno di omosessuali e di persone che sono pronte a tradirti: questa è la sua reputazione.
Il teatro era fatto di compagnie che viaggiavano tutto il tempo, erano nomadi: i figli non andavano a scuola, quindi non potevano studiare, quindi erano ignoranti, a stento sapevano leggere e scrivere. Da qui il disprezzo di classe da un lato, e dall’altro anche l’enorme fascino che il teatro ha sempre provocato, su queste classi o raggruppamenti sociali che avevano il monopolio della cultura.
Quindi da Stanislavskij in poi, con Mejerchold, con Vachtangov, con Brecht, con Artaud, viene fuori tutta un’altra maniera di pensare e fare teatro, e il dargli – qui è in campo la metafisica – un plus valore, un senso che va al di là di questo “grado zero” che è intrattenere.
Tu domandi quali sono le radici, oggi: la maggior parte del teatro che tu vedi, è un teatro che lascia indifferenti noi spettatori. Molto spesso se sono dei bravi attori ci intrattengono, ma non è più qualcosa che ci scuote. Raramente noi vediamo uno spettacolo…
P. R. – … che ci trasforma.
E. B. – Esatto. Oggi c’è tutta un’altra categoria di teatri, questo teatro della tradizione, delle istituzioni, che fa spettacolo di sera, e poi tutta la cultura teatrale che è nata negli anni ‘70, dei gruppi teatrali, che non fa teatro magari ogni sera, però c’è qualcosa che li accomuna che è l’autodidattismo, l’avere appreso attraverso il fare, il training, completamente diverso dalle scuole di teatro tradizionale: il pensare che il teatro è un sistema di produzioni che non si guadagna la vita solo facendo ogni sera spettacoli, cioè è specializzato – tu fai corsi, lavori nella comunità, vai a fare teatro nelle prigioni, negli ospedali – c’è tutta un’altra maniera di utilizzare l’artigianato o il mestiere dell’attore.
In che consiste il mestiere dell’attore? nello stabilire delle relazioni. Comincia dalla relazione verso se stessi: usi la tua esperienza, il tuo vissuto, le tue conoscenze, per creare una relazione con lo spazio, la luce, i tuoi compagni, poi con gli spettatori, ma anche con il passato, con il presente.
Quindi le radici e i rami dipendono molto dalle motivazioni delle persone che si riuniscono e fanno teatro, oppure come dicevo: vado in un teatro tradizionale, vengo ingaggiato faccio cultura, sono uno degli operai della cultura; ma molto della mistica, direi della mistica che esisteva nel ventesimo secolo, del teatro, oggi si è persa, credo.
G. G. – Si è persa anche la ritualità, la sacralità.
E. B. – Si, tutto quello che è ritualità e sacralità è scomparso dalla nostra vita quotidiana. Quella che noi chiamavamo “buona educazione”…Cos’è la buona educazione se non la ritualità dell’essere gentili, di trattare gli altri come se fossero di vetro?
P. R. – Bella questa espressione “di trattare gli altri come se fossero di vetro”… cristallina, appunto, perché rende veramente l’idea di cosa significhi essere gentili.
G. G. – Il vostro percorso, il vostro modo di fare teatro, di stare insieme, di lavorare ognuno su se stesso e con gli altri mi evoca l’immagine dello sciamano, che si dice debba prima lavorare su se stesso per portare poi qualcosa agli altri: trovo molta affinità con il lavoro dell’attore – come essere umano, in primis – su se stesso.
E. B. – Molto del… non molto, tutto direi, questo lavoro su se stesso, non è perché noi volevamo diventare migliori, oppure volevamo raggiungere certe parti di noi stessi che avessero a che fare con un’autenticità, una sincerità….no, lo abbiamo fatto perché eravamo degli autodidatti e dovevamo apprendere: la conquista della differenza passa per la conquista della conoscenza: come difendere la propria diversità? Qui ancora una volta ritorna l’esperienza dell’emigrante: sì è vero, sono emigrante, sono diverso da voi….da un lato io debbo vivere insieme a voi, però non voglio perdere quelle che sono le mie caratteristiche, allora come trovare la soluzione? E qui veramente essere un artista aiuta, perché è il differente che viene più o meno accettato. Fino a un certo punto, perché se comincia a comportarsi come Artaud o come un surrealista, le persone cominciano a reagire (sorride).
G. G. – Mi viene in mente un progetto al quale avevo iniziato a lavorare tempo fa, dal titolo “Radici di Casa”: una serie di interviste sul concetto di casa, a italiani che vivono all’estero e stranieri che vivono in Italia. Chiedevo: “cosa è casa per te?” e il dialogo verteva su questo tema, sviluppato in una serie di domande. Il vostro percorso fa affiorare i concetti, le parole, l’immagine della casa – perché siete una “casa”, come comunità – e allo stesso tempo, attraverso quello che avete continuato a condividere con il resto del mondo – mi viene in mente la bellissima e preziosa esperienza del baratto – c’è il tema del viaggio. Quanto è importante la casa come intreccio di relazioni, e quanto il viaggio? Cosa si può dire, rispetto a questo?
E. B. – Quello che tu stai raccontando è fondamentale, perché la casa – nel senso di “home” e non di costruzione, di “focolare” – è quello che ci dà sicurezza.
E tu puoi dire che il gruppo teatrale è “una casa con le ruote”, che viaggia.
La cosa interessante è che, viaggiando, noi arriviamo in altre “case con le ruote”, in altri gruppi dove noi ci ritroviamo a casa: quando io vengo qui a Koreja incontro la gentilezza, modo di comportarsi tra di loro; nel mondo, nonostante le diversità culturali, le diversità estetiche, le diversità politiche, questa “tenerezza” dei rapporti fa che immediatamente ci troviamo a casa.
Però siccome la nostra casa è con le ruote, per molti motivi – il primo è economico – non possiamo restare tutto il tempo a Lecce.
P. R. – Faccio una domanda che esula un po’ dal contesto: pensa di ritornare qui abbastanza presto?
E. B. – No. E’ come se l’Italia fosse veramente un paese straniero, per me, e l’Italia che io porto dentro di me è un’Italia che non esiste più; è l’Italia degli anni ‘40, dei primi anni ‘50.
Io ho lasciato l’Italia nel ‘54, quindi un’Italia molto povera. Io per esempio sono cresciuto a Gallipoli, che in quel momento era un villaggio di pescatori poveri, i bambini erano scalzi. Adesso quando vado a Gallipoli è un mondo…non lo riconosco più, è proprio un altro mondo.
In tutto il mondo, dappertutto la lingua è stata violentata, viene usata adesso per una violenza verso l’altro: ma, accanto a questa violenza linguistica c’è anche una volgarità estrema.
In Danimarca esiste, però molto di meno. Rimango molto scioccato dal modo volgare di vivere degli italiani: ma lo vedo anche in altri paesi europei, e quindi mi trovo profondamente a disagio.
Tieni presente che io vivo in una cittadina piccola e in più in una piccola fattoria fuori città, quindi in mezzo alla foresta, molto isolato….buona parte della mia vita è socievole, perché ogni giorno devo incontrare gli attori, andiamo in sala, spettatori, interviste, incontrare le belle signore (sorride)….e poi invece proprio sento proprio il bisogni di scomparire e rimanere in compagnia di me stesso e di mia moglie…
P. R. – Si ricorda e lo può condividere un atto di sublime gentilezza che lei ha fatto o che ha ricevuto da qualcuno?
E. B. – Avevo sette anni quando mio padre ritornò dall’Africa, era nel 1943, e mio padre tornò dall’Africa malato, era la guerra. Eravamo molto poveri, la famiglia, e mia madre – ed io forse – avevamo escogitato un modo per guadagnare qualche soldo, che consisteva in questo: mia madre mi pettinava, mi metteva il vestito migliore.e io uscivo per la strada e vedevo qualcuno, e mi avvicinavo e dicevo: “scusate, io avevo dieci lire per andare a comprare le medicine per mio padre, e le ho perse. Mi può dare una o due lire?” Stranamente, tutti mi guardavano ed ho sempre avuto chi mi dava una lira, due lire…un giorno ricordo che c’erano tre giovanotti scherzosi, allora io mi sono avvicinato a loro, sicurissimo che… e questi mi hanno ascoltato, mi hanno guardato, e poi mi hanno dato tredici lire! (sorride e ride con la stessa espressione di gioia meravigliata di quando probabilmente era bambino)… È un’esperienza che ricordo ogni volta che incontro qualcuno mi fa del male, che scatena la mia rabbia…penso a questi tre ragazzi, e mi faccio una risata.
G. G. – Grazie! Questo ad esempio è qualcosa che ha segnato in positivo, pensando al vetro…
E. B. – Assolutamente. Penso che, se tu hai vissuto un atto di generosità, poi non lo dimentichi più.
G. G. – È un amuleto.
P. R. – Secondo lei è più facile o più difficile, essere gentili, oggi? E’ cosa facile, oppure faticoso?
E. B. – Non so se è più facile. Quello che io noto è che se qualcuno è rabbioso con te, e tu sorridi e sei gentile, cambia molto, cambia molto, sì. Se invece uno si lascia contagiare dalla stessa “temperatura”, o temperamento che si sta manifestando di fronte, allora…
P. R. – Quindi anche in questo caso entra in gioco la relazione con l’altro.
E. B. – La relazione, e anche direi la consapevolezza che anche noi siamo responsabili di quello che avviene: la gentilezza è anche una strategia per disarmare gli altri.
P. R. – Incredibile parlare della gentilezza come di un’arma…
G. G. – … per disarmarsi a vicenda, per andare oltre il muro…
E. B. – Esatto …A proposito di gentilezza, una delle esperienze che noi abbiamo fatto con l’Odin fu nel ‘74, di andare in Sardegna: Gianfranco Zappareddu, un giovane regista di un gruppo di Cagliari ci aveva invitati, e ci portò prima a San Sperate, e poi a a Orgosolo; a quel tempo ad Orgosolo c’era moltissimo banditismo, era un villaggio di 4000 abitanti e c’erano tre caserme: una di carabinieri, una della celere, e una della polizia, era un villaggio occupato. La cosa interessante è che quando noi siamo arrivati, immediatamente le persone del bar ci hanno invitati a bere qualcosa. Noi eravamo stranieri, e Gianfranco Zappareddu ci raccontava che era la loro tattica di esorcizzare quello che rappresenta lo straniero, che è sempre una minaccia: lo straniero che viene dal continente per un sardo è sempre uno straniero che viene per dominare. Allora una delle tattiche che loro hanno è quello di esorcizzare la minaccia offrendo, attraverso la generosità, l’ospitalità.
G. G. – Ma il sistema del baratto, che lei e la compagnia avete utilizzato, è sicuramente per lei una forma di gentilezza, o no?
E. B. – Il baratto nacque a Orgosolo, perché noi facevamo spettacoli per un numero molto limitato di spettatori, a quel tempo erano 60/70, e noi raccontammo «Siamo una compagnia, che fa teatro…», e andammo a rappresentarlo in una palestra, la palestra della scuola perché noi non usiamo un palcoscenico. Solo che arrivarono centinaia di persone per vedere lo spettacolo, e quando noi dicemmo « No, solamente sessanta», cominciarono a gridare i bambini, tutti a schiamazzare… per quello noi fummo protetti dalla polizia, buttavano pietre contro la sala….e noi facemmo entrare solamente gli anziani, perché lì c’è una gerarchia degli anziani, per cui erano 60/70 spettatori, tutti vecchi. E quando noi cominciammo a fare lo spettacolo era infernale, perché fuori urlavano, ogni tanto si sentiva un vetro della finestra che si rompeva perché buttavano pietre….e a un certo punto qualcuno ha tagliato i fili della luce, per cui improvvisamente cadiamo nel buio.
Allora io dico ai miei attori: «continuate, continuate», e mi rivolgo agli spettatori nel buio e dico che questo fa parte dello spettacolo: «adesso voi dovete tirare fuori le vostre scatole di fiammiferi, accendere i fiammiferi e illuminare lo spettacolo». Ma nello stesso tempo loro parlavano, ridevano…era una cosa infernale questo pubblico, noi che eravamo sempre abituati ad avere degli spettatori che si commuovevano, non riuscivamo proprio.
Alla fine dello spettacolo queste persone rimangono sedute, si avvicinano a me e dicono: «ahhh….interessante, siete bravi, sapete ballare sapete muovervi, però adesso vi mostriamo noi come si canta»: e si sono messi a cantare canti sardi. Da lì nasce il baratto.
Ebbi questa esperienza, e poi quando venni qui nel Salento e la gente ci diceva «fateci uno spettacolo» – nel ‘74 metà del paese di Carpignano era in emigrazione, tutti gli uomini erano in emigrazione, lavoravano fuori – e io non volevo che pagassero il biglietto, però non volevo lavorare gratis: lo fanno gli stupidi, lo fanno i missionari, e io non sono né uno stupido né un missionario – mi ricordai, e dissi: «Voi siete cantanti, bene allora cantate anche voi»; dovevo inventarmi delle danze (come vi ha raccontato Iben, “Il libro delle danze”): spacciammo il nostro training come danza, e questo dovevano fare.
I giovani che venivano non sapevano danzare la tarantella, non erano per niente interessati alle tradizioni, alle canzoni popolari. Dicevo: «andate dai vostri genitori, andate all’osteria, dagli zii, dai nonni», e così nasce il baratto, non perché io pensavo alla cultura popolare: è casuale, è stato per una serie di circostanze.
P. R. – Tante volte le cose direi più strane anche, avvengono così, casualmente, senza che si voglia.
E. B. – In realtà io credo che la vera creatività consista nel saper sfruttare la casualità, il caso. Qualcosa ti viene: se questo libro ti cade, ed è solo un libro che è caduto, basta. Ma se improvvisamente tu dici: «ma perché cade? posso farlo cadere in un altro modo? oppure posso aprirlo, posso leggerlo in questo modo, oppure in questo modo…?».
In parte è una deformazione professionale, perché prendi un oggetto e gli devi scoprire la vita… Noi siamo sempre abituati a pensare: «questo è un libro, gli faccio quello che voglio, lo prendo, lo leggo»: no, invece è il libro che legge te, e allora se il libro legge te, come ti legge? È da qui che comincia, direi, il processo di “deformazione mentale”, che è il modo paradossale di pensare, che porta allo sfruttare questa casualità.
P. R. – Cogliere l’opportunità, insomma…
E. B. – Collaborare con le circostanze, come diceva James Joyce.
G. G. – Sì è proprio così, anche nella mia esperienza: da un apparente “errore” nasce quello che deve arrivare.
E. B. – Fondamentale, esatto.
G. G. – Del baratto io ho avuto un’esperienza bellissima, proprio nelle scuole dello Jutland, quando sono stata da voi… è stato meraviglioso. Ascolteremo dopodomani la presentazione del progetto degli Archivi Viventi, e quindi adesso non apro questo discorso, però chiederei: qual è il nuovo ciclo dell’Odin Teatret?
E. B. – È un ciclo che ci prende impreparati, perché ha a che vedere con delle leggi assolute, che sono quelle della vecchiaia, che noi non possiamo contornare; i nostri corpi, io vedo i miei attori e me stesso, qualche volta fanno male, non ci sorreggono; quindi da un lato siamo di fronte a questa “assolutezza” direi, a queste regole assolute che la vecchiaia impone, non solo come costrizione ma anche come offesa profonda direi, alla dignità che tu senti. Solamente chi diventa vecchio vede il corpo che lo tradisce….ma è difficilissimo immaginarlo fino a quando uno non ci si trova: per un attore, per il quale tutta la corporalità è fondamentale, è una situazione di estremo …..sgomento, insicurezza…ed è questa situazione che deciderà il nostro modo di lavorare.
Nello stesso tempo la vecchiaia presenta un grande vantaggio: che tu non sei più costretto a dimostrare qualcosa. Puoi godere del senso di “inutilità” dell’apprendere. Per esempio io ancora continuo a leggere, ad apprendere, sono curioso… e mi rendo conto che tutto questo non lo posso per niente applicare, non è un investimento.
Perché sempre quando uno ragiona, apprende, pensa « questo lo posso usare…» e adesso io so che non lo posso usare per niente. (ride)
Questo senso dell’inutilità del conoscere, è anche un’esperienza totalmente nuova, un po’ come le costrizioni delle regole assolute della vecchiaia.
Quindi è a questa nuova condizione umana che noi partiamo.
Che cosa ne verrà fuori lo ignoro, un po’ come ignoro che cos’è un archivio vivente, che devo costruire. Anche quando ho cominciato non sapevo cosa fosse un teatro – laboratorio, poi nel corso di quasi sessant’anni…adesso posso dire «ah sì, il teatro è questo, è questo… » : posso fare sette conferenze durante sette giorni.
Una cosa è certa: che noi tutti abbiamo ancora voglia di continuare, di mantenere in vita la casa con le ruote che abbiamo costruito, rendendoci conto che le ruote sono in parte arrugginite, e che non girano così bene, e che quindi ci saranno dei lunghi periodi dove non si può viaggiare, ma anche che tutta la casa deve seguire altri ritmi.
P. R. – Però c’è da dire anche che voi, siete degli archivi viventi.
E. B. – Beh, io archivio vivente no, ci sono molte persone come me, ma per gli attori la conoscenza è incorporata: la mia non è una conoscenza incorporata, la mia è un modo di pensare, intellettuale, che passa per una verbalizzazione, mentre la loro non passa per la verbalizzazione.
P. R. – È come se, facendole un’intervista, io avessi aperto un libro dove ho trovato molto sapere, molta intelligenza, molta gentilezza. E quindi lei allora non sarà un archivio vivente, ma un libro di sapere assolutamente sì, un libro di esperienze.
E. B. – Nel secolo scorso, quando pensavo che si poteva apprendere l’arte del teatro facendo domande, ero andato in India, era la prima volta che andavo in India (la seconda volta in realtà), e appena arrivato andai ad ascoltare un concerto di musica indiana: ora, era il ‘63, non avevo mai sentito musica indiana in Europa, il modo di cantare questi gorgheggi.
Dopo lo spettacolo con coraggio andai e mi avvicinai al cantante, e gli feci questa domanda: «Ma come fa lei, a cantare in questo modo?»: lui mi guardò, mi sorrise, e molto gentilmente mi disse: «Mi ha preso trent’anni apprendere a cantare in questo modo!” (ride) « … e vuoi che io te lo dica in due frasi » .
G. G. – In questi giorni ho provato molta commozione, ammirazione, una serie di emozioni, e vorrei dire a questo proposito che questi limiti io non li vedo. Quello che traspare, oltre il verbale, è l’essenza. Amo moltissimo le persone che hanno fatto un percorso lungo di vita, e che hanno così tanto da condividere come voi.
Quindi mi aspetto ancora meraviglie!
E. B. – Inshallah, inshallah!
Eugenio apre il libro scritto da lui al quale mi sono a lungo abbeverata, e scrive una dedica, che conservo come uno dei doni più preziosi. (Gaia Gulizia)