
Nel 2024 Odin Teatret ha compiuto 60 anni di attività, sei decenni che portano innanzitutto il nome del suo fondatore, Eugenio Barba, e che abbiamo celebrato su Punto e Linea Magazine dopo il suo ritorno al Teatro Menotti di Milano. Questa intervista, già pubblicata lo scorso settembre sul blog di Gaia Gulizia che ne ha curato l’incontro, sottolinea alcune qualità essenziali del bagaglio valoriale della compagnia nata a Oslo e successivamente trasferitasi a Holstebro in Danimarca. Sono tutti aspetti che mai come oggi, in un periodo di mutamenti, possono tracciare la via per una nuova dimensione performativa legata allo spettacolo dal vivo. Non si tratta quindi di un semplice atto celebrativo, ma di un piccolo vademecum per immaginare un possibile teatro del futuro. Buona lettura …
(Claudio Elli)
A cura di Gaia Gulizia:
In occasione del grande e atteso ritorno a Milano di Odin Teatret ho avuto il piacere di conversare con Eugenio Barba e i suoi attori, parlando di ciò che è stato fino ad oggi il cammino del gruppo teatrale più longevo al mondo, del loro presente e dei progetti futuri.
Al termine della dimostrazione di lavoro di Julia Varley e Tage Larsen mi accomodo con Eugenio Barba fra le poltrone della platea di Teatro Menotti, e iniziamo una conversazione come sempre piacevole e interessante, alla quale partecipa anche Paola Raimondi con alcuni interventi che sono stati integrati nell’intervista
Gaia Gulizia: Come è stato tornare a Milano dopo una lunga assenza?
Quello che più mi ha colpito è stata l’accoglienza che ho ricevuto qui al Teatro Menotti, perché non lo conoscevo, e dal direttore Emilio Russo, così come da tutta l’equipe, lo staff. È stata veramente molto calda, molto accogliente.
Questo è un teatro che appartiene alla tradizione, quindi non è uno di quei luoghi/ gruppi di teatro dove c’è tutta un’altra maniera di organizzare le relazioni, ma mi sono sentito molto molto bene. Quindi questa è stata la prima reazione, di sentirmi a casa.
G.G.: Cosa significano i 60 anni di Odin Teatret?
Non so se hanno un significato. Uno riflettendo dice “come ho fatto?”; io mi pongo la domanda, come ho fatto a riuscire in questa continuità di tanti anni.
Rifletto, e in realtà… non penso molto a questo. Penso più a quello che devo risolvere nel prossimo futuro, le idee, i progetti, le difficoltà da affrontare, i momenti belli che mi aspettano.
Ci sono molti progetti perché stranamente molte persone si avvicinano, e in più si è ampliato il ventaglio delle possibilità, perché prima eravamo solo un teatro-laboratorio, adesso con la Fondazione Barba Varley e con questo archivio Isole Galleggianti-Archivio Vivente a Lecce ci sono tantissime altre possibilità di interventi nel sociale, ma anche in luoghi dove esistono non solamente gruppi di teatro ma anche organizzazioni sociali, associazioni culturali…..quindi tutto questo adesso è molto più presente attraverso la Fondazione Barba Varley e attraverso il fatto che l’Odin, perdendo la sede a Holstebro, è diventato nomade.
Quindi moltissimi degli inviti e dei progetti avvengono – anche quelli che vogliamo fare noi stessi – in altri posti.
Paola Raimondi: Quindi il nomadismo è una risorsa, alla fine?
Direi che è una condizione che apre molte possibilità, però ne elimina anche molte altre, perché quando avevamo una casa potevamo fare molti progetti che oggi è impossibile fare, perché molti di questi progetti includevano una convivenza – stare insieme, vivere insieme – e se tu non hai un luogo di questo tipo diventa molto difficile realizzarli.
P.R.: C’è il desiderio di una nuova casa, o va bene così per il momento?
Non ho un desiderio, perché avere una casa comporta una tale responsabilità e anche lavoro, che con la mole di progetti che abbiamo adesso sarebbe impossibile.
G.G.: Cosa si prova a vedere in scena nel corso di un lungo tempo gli attori dell’Odin Teatret, osservarli dalla platea quando arriva il momento di presentare lo spettacolo o le dimostrazioni di lavoro?
Noto che il tempo è passato e che ha lasciato i suoi segni sul loro fisico, sul loro corpo.
Nello stesso tempo che osservo questo scopro anche quanto siano capaci di trasmettere anche a me, che conosco molto bene quello che fanno, di trasmettere una sensazione particolare, e quindi come ancora abbiano un’efficacia: quando si arriva a 80 anni o a 70 anni è evidente che tutta la prima impressione che lo spettatore può avere di un corpo giovane è scomparso.
E allora osservo come loro riescano dopo pochi secondi a far perdere allo spettatore e anche a me questa immagine nella quale sono rinchiusi, di corporalità.
P.R.: Mi ha colpito questo, perché anche io, immedesimandomi con il progredire dell’età ho avuto oggi questa percezione di corpi vissuti. Però poi è come se fossi andata oltre, perché vedevo dei corpi vissuti in cui come scrigni stava il vissuto di tutta l’esperienza teatrale, di lavoro, di sapienza teatrale che veniva adesso offerta.
La parola “vissuto” è molto giusta, corretta, perché noi siamo dei corpi vissuti, però in questo vissuto vi è anche tutto un aspetto di saper fare, di conoscenza tacita, di capacità professionali che vengono fuori da questo corpo… il corpo “scrigno” (ride) si è deteriorato.
G.G.: Sì, sono corpi “in vita” che come scrigno racchiudono a maggior ragione tutto il patrimonio di una lunga vita vissuta e dell’esperienza che viene poi portata all’esterno. Io ho sempre sentito il fattore dell’età come un valore in più, piuttosto che qualcosa che porta un limite.
Penso che tutti i miei compagni, come anch’io, sentiamo, siamo consapevoli, di quanto l’età limita. Ma nello stesso tempo c’è anche la capacità di convivere con questi limiti, e saperli sfruttare.
G.G.: A questo proposito devo dire che l’esempio che porto sempre è quello di Eugenio Barba, perché a detta di tutti Eugenio Barba ha un’energia – a tutti i livelli, fisica, mentale, spirituale – che è eccezionale.
Sì lo so, lo so, ma è qualcosa che ho ereditato da mia madre, o forse da mio padre, non lo so… ma è genetico, non è che sia una qualità o un merito mio. Non è per niente un merito, me lo ritrovo alla mia età… però sento anch’io la stanchezza.
G.G.: A proposito di lungo tempo di esperienza condivisa, che valore ha un percorso così lungo insieme?
Penso che sia stata un’esperienza unica, perché che io sappia non esistono nella storia del teatro ensemble, compagnie, gruppi che sono rimasti insieme.
Ho un nucleo di 8/9 persone che sono i miei attori storici, alcuni hanno fondato il gruppo insieme a me 60 anni fa, altri sono rimasti 58 anni, altri 50, altri 45….è una cosa talmente assurda, nel senso che tutto il teatro è basato sulla transitorietà dei rapporti, mai le persone rimangono insieme, anche nei teatri stabili dove vengono assoldati a contratto per alcuni anni arriva sempre un momento dove uno viaggia o lascia, viene mandato via….quindi questa è veramente un’esperienza che a livello antropologico, ma anche professionale, è interessante, perché ha obbligato noi, che ci conoscevamo così bene, a fare enormi sforzi per sfuggire a quello che sapevamo e che già i colleghi conoscevano.
Quindi molte di queste dimostrazioni di lavoro rivelano l’arguzia, l’astuzia degli attori, il cercare di fuoriuscire dall’esperienza che avevano accumulato, appunto per sorprendere non solo se stessi ma anche il regista e i colleghi.
È veramente un caso unico nella storia del teatro. Conosco pochi altri teatri, ad esempio il Teatro Tascabile di Bergamo, ma anche gruppi in America Latina, che sono rimasti insieme 35/40/45 anni.
G.G.: 60 anni sono un caso unico, non solo nella storia del teatro, ma anche a livello umano…Citando la bellissima frase «il teatro è politica fatta con altri mezzi», che leggevo anche in “La mia vita nel terzo teatro” presentato nell’ottobre scorso a Lecce, chiedo: cos’è la bellezza per Eugenio Barba, nell’arte, nel teatro, e nella vita quotidiana?
Non è qualcosa di estetico, anche se può contenere una dimensione estetica.
È più una sensazione di una verità che include una complementarietà, cioè qualcosa che può essere estremamente tenero e nello stesso tempo crudele. È soprattutto la sensazione di stare di fronte a qualcosa che rivela una verità, ma è una verità che non si lascia spiegare.
Allora rimane un po’ enigmatica, come se fosse la capacità di far vedere il mistero della vita senza spiegarlo, ma facendolo vivere. So che questa parola può essere facilmente confusa, ma per il momento è l’unica che conosco, che si avvicina di più a quello che vorrei che fosse il teatro, o la politica.
Quando io dico che la politica è nostalgia di cambiamento intendo anche questo. Ma è una nostalgia nel senso di tendenza, o di pulsione, o di tensione verso, e non qualcosa che sta indietro, una specie di rimpianto.
G.G.: Assomiglia alla descrizione di ciò che avviene partecipando agli spettacoli dell’Odin Teatret: qualcosa che non si può spiegare a livello intelligibile…
Quello che in questo periodo mi è molto dispiaciuto è che gli spettacoli di ensemble che avevamo sono stati interrotti perché gli attori sono andati via, ma adesso ne stiamo facendo uno nuovo, e quindi ricreare la polifonia dei rapporti, sia in scena sia con gli spettatori, è veramente una grande gratificazione professionale.
P.R.: Ha usato il termine “polifonia”, e mi viene adesso da chiedere: c’è musica, nel vostro fare teatro?
Io credo che la musicalità è quello che si può chiamare il “sottotesto” dell’Odin Teatret, che ha a che vedere con un fluire, con un ritmo, con stimoli che sono dinamici, fisici, vocali… che creano questa musica. E allora che cos’è la musica? La musica è il linguaggio che non si dirige alla ragione, alla comprensione, ma a tutta un’altra parte del nostro cervello, del nostro organismo, del nostro vissuto, della nostra esperienza.
Ed è quello che in fondo accade, quando uno spettacolo dell’Odin è riuscito è come una sinfonia: la gente esce, e se ha vissuto qualcosa, ha sempre difficoltà a descriverlo.
Anche i poeti dicevano «avant tout de la musique». La poesia è musica.
G.G.: Si può dire che gli spettacoli dell’Odin Teatret siano un’esperienza partecipativa, come una sinfonia alla quale tutti gli strumenti partecipano.
Molti parlano di poesia, di musica… appunto, sono delle parole che vogliono dire che tutto quello che è familiare viene ripreso e trattato attraverso mezzi particolari che sono quelli del mettere insieme le parole in un certo modo, attraverso determinati ritmi, le rime e tutti gli artifici che la poesia comporta, lo stesso che accade con la musica.
G.G.: C’è un messaggio per questo presente e futuro per il popolo dell’Odin?
Io vorrei che il popolo dell’Odin fosse orgoglioso del modo in cui finirà l’Odin.
G.G.: Che effetto ha fatto tornare a Milano?
Noi abbiamo fatto uno spettacolo nell’81 in questo teatro, che allora era il Teatro dell’Elfo, e ce lo ricordiamo molto bene perché il palcoscenico è in pendenza, quindi tutti i vecchi attori quando sono arrivati dicevano “ah sì, era quello!”
È stato un ritorno al passato.
È tutto merito di Gaia!
G.G.: Qual è il bilancio di questa intensa settimana appena conclusa?
Erano molti anni che Odin Teatret non tornava a Milano, quindi ero curioso di vedere se c’erano ancora persone che ci ricordavano, e sono rimasto molto colpito dall’affluenza, dal calore, dalle vibrazioni emotive con spettatori che ci hanno seguito fin dagli anni ‘70.
È impressionante e fa pensare, e commuove anche, incontrare spettatori che ho conosciuto giovani e che adesso sono persone anziane.
È come se l’Odin Teatret non fosse solo una serie di spettacoli ma una parte della loro vita, e questo legame profondo fa sì che io senta, o scopra nella mia professione del teatro una dimensione che va al di là del piacere intellettuale, estetico, o della riflessione che uno spettacolo può dare.
G.G.: È un arrivederci a Milano? Tornerete?
Io spero di sì. Le sorti del teatro sono nelle mani di circostanze molto precarie, ma abbiamo stabilito una relazione molto buona con il direttore del Teatro Menotti Emilio Russo, e forse c’è la possibilità di tornare con una co-produzione in questo teatro, nella primavera dell’anno prossimo.
Stiamo lavorando sul nuovo spettacolo, che si chiama “Le nuvole di Amleto”, sulla biografia di Shakespeare, quindi sarebbe bello mostrarlo ancora al popolo segreto dell’Odin e agli altri.
G.G.: La prossima domanda riguarda l’”Everest” citato molte volte come metafora: cosa simboleggia l’Everest e la sua conquista, nella vita di un essere umano e nel teatro?
Ognuno di noi ha la consapevolezza che quello che deve fare, i suoi obblighi, che siano verso il lavoro, la famiglia, i figli, i genitori, possono essere svolti con un diverso grado di impegno. L’Everest ci ricorda che dovremmo dare il massimo: è uno sforzo in più, perché uno può benissimo raggiungere un buon risultato risparmiando le energie, ma questo extra, questa aggiunta, sforzo, o anche maggior impegno, è quello che alla fine lascia una traccia più profonda, non solo in noi ma anche nei rapporti che realizziamo con i compagni di lavoro, ma soprattutto con le altre persone.
G.G.: In che modo si può portare valore e consapevolezza attraverso il teatro?
L’unica persona sulla quale tu puoi operare sei te stessa. Tu non puoi immaginare di avere influenza sugli altri… certo, se sei un maestro di scuola è evidente che hai un’influenza sui tuoi alunni, se sei un medico avrai un’influenza sul tuo paziente. Ma nel teatro tu sei di fronte a persone che non conosci, degli sconosciuti.
Quindi come colpire l’immaginazione, la memoria, il senso estetico di questi spettatori?
L’unica cosa che posso fare è dando il massimo, sia io che i miei attori, costruendo un cammino, una traiettoria professionale che cerchi di mantenere una coerenza con questi tempi in cui i cambi sono così grandi che non si sa come affrontarli con le conoscenze e gli atteggiamenti del passato.
Quindi è come lavorare nell’oscurità, devi seminare. L’unica immagine che ho è che tu semini, semini, semini… e forse qualcuno raccoglierà qualcosa.
G.G.: Tornando a Odin Teatret, cosa è stato finora Odin Teatret e cosa sarà da oggi in avanti?
L’Odin Teatret nacque come un rifiuto, o una specie di impertinenza da parte mia e di alcuni giovani che erano stati rifiutati alla scuola teatrale; se il mondo teatrale ci giudicava non idonei a questa professione, dovevamo accettare questa decisione oppure andarci contro, ed è quello che è Odin Teatret: Odin Teatret è nato come un gruppo di dilettanti che si è professionalizzato, ma è rimasto nella sua essenza radicato nel mondo degli esclusi.
Oggi vediamo chiaramente che ci sono istituzioni teatrali che vengono riconosciute dallo stato e hanno degli appoggi aleatori, difficili, precari… però sono riconosciuti, mentre invece qualunque giovane che vuole fare teatro non automaticamente è in grado di essere incluso in questa cultura o in questo sistema di produzione culturale.
Allora esiste quello che io chiamo Terzo Teatro: corsi di teatro, progetti, collettivi, associazioni culturali, che costituiscono in realtà la massa dell’iceberg teatrale che esiste oggi nel pianeta. La maggior parte delle attività culturali avviene attraverso questa terza cultura, questo Terzo Teatro, e soprattutto in una situazione totalmente nuova fuori dagli edifici del teatro, quindi la società degli ospedali, dei campi di profughi, delle strade, delle prigioni… ed è lì che si trova questa realtà di totale disfacimento dell’identità teatrale che oggi è così ricca, o multipla, plurale: non si può parlare di teatro, ma di teatri, spettatori diversi, tecniche diverse, possibilità diverse… in questa pluralità culturale tu devi trovare il tuo modo di seguire quello che è per te fondamentale.
Penso che l’Odin continuerà a mantenere questa cultura di gruppo, questa cultura di un lavoro, di un andare avanti cercando di non ripetersi: la grande sfida è come evitare la ripetizione, e con la ripetizione l’inerzia, e con l’inerzia un’involontaria indifferenza verso i risultati che uno cerca di raggiungere.
G.G.: Grazie davvero. In conclusione chiedo: qual è il messaggio di Eugenio Barba per il popolo segreto dell’Odin Teatret?
Io debbo molto al popolo segreto, a queste persone che mi scrivono e mandano messaggi che affermano: «Non mi conosci, ma io sono orgoglioso di appartenere al popolo segreto dell’Odin Teatret». Questa appartenenza al popolo segreto dell’Odin si sta diffondendo, e per noi dell’Odin Teatret è importantissima, è quella che dà veramente un senso concreto a quello che facciamo, e soprattutto anche un calore umano che ci permette di superare quella che altrimenti è la routine anonima del nostro mestiere.
G.G.: Grazie ancora una volta e… arrivederci a presto!
Speriamo! Grazie Gaia!
Intervista del 26 settembre 2024
Condivisa con il blog Gaia e l’Incanto. Esplorazioni d’Arte e Cultura (e)