Di Ermanno Olmi si è detto molto, e probabilmente della sua opera si discuterà ancora felicemente, e a lungo.
Classe ’31, figlio della guerra, la Seconda, di cui è orfano di padre, passa dal liceo scientifico all’artistico ma non termina gli studi. Da Treviglio (benché lui rivendicherà sempre i natali bergamaschi) si trasferirà a Milano per frequentare i corsi di recitazione presso l’Accademia d’Arte Drammatica, mantenendosi lavorando come fattorino alla Edisonvolta (azienda in cui già lavorava la madre, ndr). Proprio dall’azienda gli propone di occuparsi delle attività ricreative e successivamente di documentare attraverso la cinepresa le attività lavorative svolte al suo interno. Da talento naturale quale è, non avendo alcuna pregressa esperienza, dal ’53 al ’61 sforna una quarantina di documentari come “La diga sul ghiacciaio”, “Tre fili fino a Milano” e “Un metro è lungo cinque”, nei quali il suo focus è proprio il lavoro svolto dalle persone viste come esseri umani. Un taglio preciso che anticiperà la sua cifra stilistica propria del regista lombardo.
Nel ’59 debutta con il suo primo lungometraggio dal titolo “Il tempo si è fermato”, ambientato in alta montagna, che racconta l’amicizia fra uno studente e il guardiano di una diga in alta montagna. Il taglio è chiaramente incentrato sulle persone, da qui la decisione di lavorare con attori non professionisti, all’interno di una realtà rurale a diretto contatto con la natura.
E’ di due anni dopo “Il posto”, prodotto dalla casa di produzione 22 Dicembre messa in piedi dallo stesso cineasta e da alcuni suoi amici, che racconta di un paio di ragazzi alle prese con il loro primo impiego, aggiudicandosi il premio della critica alla Mostra del Cinema di Venezia del 1961, seguito da “I fidanzati”, del ’63, ambientato sempre all’interno del mondo operaio. Il ’65 è l’anno di “E venne un uomo”, biografia di papa Giovanni XXIII (scomparso soltanto un paio d’anni prima, ndr), anch’essa felicemente recensita dalla critica per obiettività ed equidistanza, e ben lontana da scivoloni agiografici.
Tra il ’68 e il ’74 seguono “Un certo giorno”, “I recuperanti” e “Durante l’estate” e “La circostanza”, considerati minori, fino al ’77, l’anno de “L’albero degli zoccoli, presentato l’anno dopo, che vince contemporaneamente la Palma d’oro al Festival di Cannes e il Premio César per il miglior film straniero. La pellicola è un sincero, e per nulla artefatto, affresco sul mondo contadino della bassa bergamasca, a cui Olmi è profondamente legato, e per scelta stilistica è parlato in dialetto (sottotitolato in italiano, ovviamente) e interpretato anche in questo caso da attori non professionisti.
Trasferitosi dalla nativa Lombardia ad Asiago, nell’82, a Bassano del Grappa fonda la scuola di cinema “Ipotesi Cinema”, e proprio in quell’anno dirige “Camminacammina”, allegorica fiaba sui Re Magi, oltre a documentari e spot televisivi.
A causa della sindrome di Guillain-Barré, di cui è affetto, resta lontano dai riflettori per cinque anni ritornando alla regia con “Lunga vita alla signora!” vincitore di un Leone d’Oro al festival del Cinema di Venezia. L’anno seguente si aggiudica il Leone d’Oro e ben quattro David di Donatello per “La leggenda del santo bevitore”, tratto dall’omonimo racconto di Joseph Roth, adattato dal critico cinematografico Tullio Kezich e dallo stesso regista. Una pellicola internazionale interpretata magistralmente dall’attore olandese Rutger Hauer, ambientata a Parigi e ritenuta a buon diritto un autentico capolavoro.
Sempre dalla letteratura, dall’omonimo racconto di Dino Buzzati, è del ’93 “Il segreto del bosco vecchio”, il cui protagonista è Paolo Villaggio in un ruolo insolito, mentre nel ’94 dirige un episodio del progetto internazionale Le storie della Bibbia, targato Rai, con “Genesi: La creazione e il diluvio”.
Nel 2001 mette in scena quello che non solo dai cinefili e dagli storici viene ritenuto il suo terzo indiscusso capolavoro, “Il mestiere delle armi”, film storico sulle gesta di Giovanni dalle Bande Nere. Di tutti il più ambizioso, recitato nell’italiano del ’500, incassa a man bassa ben nove David di Donatello, tra cui quello di miglior film, miglior regista, migliore sceneggiatura, miglior fotografia, miglior musica, migliori costumi e migliore scenografia.
Nel 2003 racconta l’epica dei pirati in una Cina fiabesca in “Cantando dietro i paraventi”, con protagonista Bud Spencer all’interno di un cast quasi interamente orientale, e nel 2005 collabora con Abbas Kiarostami e Ken Loach in “Tickets”. Nel 2007 dirige il suo ultimo film, “Centochiodi”, annunciando il suo definitivo ritiro dalla fiction.
Nel 2008 riceve il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia, e nel 2013 l’Università di Padova gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze Umane e Pedagogiche per “la sua azione di valorizzazione delle radici culturali, della memoria, delle tradizioni, della grande storia e dell’esperienza quotidiana e delle piccole cose”.
Benché la critica italiana gli abbia sempre preferito altri cineasti, sicuramente più bravi nel marketing auto-promozionale, questa prospettiva è stata smentita dal lavoro che tutt’oggi resta di Olmi, il quale, oltre che regista e documentarista, era anche sceneggiatore e montatore dei propri film, oltre che scrittore (autore di “Ragazzo della Bovisa”, “Il sentimento della realtà” scritto a quattro mani con Daniela Padoan, “L’apocalisse è un lieto fine – Storia della mia vita e del nostro futuro” e “Lettera a una Chiesa che ha dimenticato Gesù”, ndr).
Per scelta non ha raccontato l’Italia più evidente, come hanno per esempio fatto Roberto Rossellini, Francesco Rosi o Pierpaolo Pasolini, ma ha comunque descritto in maniera fedele e intelligente una sua parte, la meno trattata. E proprio a quest’ultimo, Pasolini, è stato accostato per essere stato in grado di narrare in maniera vivida e senza sconti gli ultimi, gli appartenenti a un mondo rurale che la rivoluzione industriale legata al boom economico soltanto qualche anno dopo avrebbe quasi del tutto cancellato.