Se fino a qualche tempo avessero parlato di Jan Tomáš Forman, classe 1932, in pochi avrebbero pensato al più celebre regista, sceneggiatore, e attore Miloš Forman.
Una vita non facile quella del cineasta ceco considerato che i genitori, protestanti cecoslovacchi, insegnante il padre e albergatrice la madre, durante l’occupazione nazista a causa della loro attività politica furono deportati rispettivamente a Buchenwald e ad Auschwitz, da cui non tornarono più. Miloš, cresciuto con gli zii, dopo la guerra ebbe un secondo choc, scoprendo di essere nato dalla relazione adulterina della madre con l’architetto cecoslovacco di origine ebraica Otto Kohn.
Come molti della propria generazione, iniziò ad amare il cinema, allora la forma di intrattenimento più popolare, attraverso le grandi pellicole del muto, da Charlie Chaplin a Buster Keaton, fino a grandi capolavori di John Ford, come “Ombre rosse” (“The Stagecoach”, ndr). Una passione per la settima arte (dopo architettura, musica, pittura, scultura, poesia e danza, ndr) che determinò qualche anno dopo la sua iscrizione alla facoltà di Cinematografia presso l’Università di Praga.
La fortuna parve girare finalmente per il verso giusto, e la sua carriera iniziò in patria con interessanti lavori come “L’asso di picche”, del 1964, di cui è anche sceneggiatore, “Gli amori di una bionda” l’anno dopo, e addirittura una nomination come miglior film straniero per la pellicola “Al fuoco, pompieri!”, del ’67. Tuttavia, a seguito degli eventi della cosiddetta primavera di Praga del 1968, che vide l’occupazione della Cecoslovacchia da parte delle truppe dell’Armata Rossa sovietica, Forman, quasi quarantenne, emigrò negli Usa, acquisendo elementi propri del cinema americano ma mantenendo uno stile europeo, entrambi in un momento decisamente felice per molti cineasti di ambo le sponde dell’Atlantico.
Il suo “Taking Off”, del ’71, che vide il quasi esordio dell’allora giovanissima Kathy Bates, raccontava in maniera piuttosto esplicita il rapporto di incomunicabilità tra genitori e figli, anche attraverso i rispettivi vizi, alcol i primi e droghe leggere i secondi. Seguì l’anno dopo la regia del documentario “Ciò che l’occhio non vede”, fino al ’75 per quello che viene giustamente considerato il suo primo capolavoro, “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (“One Flew Over the Cuckoo’s Nest”). Una pellicola che vide forse la miglior interpretazione del suo protagonista, Jack Nicholson, pellicola che vinse ben cinque Oscar, a partire da quello per il miglior film, e prodotta dal figlio di Kirk Douglas, Michael, che dal piccolo schermo a quello grande diventerà nel giro di pochi anni una nuova stella.
Quattro anni dopo il cineasta ceco girerà “Hair”, la trasposizione sul grande schermo del musical dal messaggio pacifista, e nell’81 “Ragtime”, autentico capolavoro ma che non ottenne il successo sperato, in cui raccontava l’America dei primi del ‘900, nel periodo in cui era popolarissimo questo stile musicale, tra modernità, drammi sociali e immigrazione, con personaggi in bilico tra Vecchio e Nuovo Mondo. In quest’ultimo apparì nuovamente una vecchia gloria di Hollywood, l’indimenticato James Cagney, lontano dalla macchina da presa ormai da decenni, nei panni del capo della polizia di New York.
Tre anni dopo, nell’84, uscì il kolossal “Amadeus”, che vide nei panni del musicista austriaco Wolfgang Amadeus Mozart l’istrionico Tom Hulce, e in quelli del rivale Antonio Salieri l’attore F. Murray Abraham. La vittoria di ben otto Oscar, inclusi miglior film e miglior regia, e di quattro Golden Globe, lo consacrò come indiscusso capolavoro della storia del cinema anche da un punto di vista visivo, grazie anche a costumi pressoché perfetti e alle fedeli ricostruzioni della Vienna del ‘700. Un lavoro che causò anche parecchie polemiche poiché si ipotizzava che dietro al prematuro decesso del musicista austriaco ci fosse proprio l’opera criminale di Salieri, una tesi in effetti storicamente mai provata.
Sempre suo è “Valmont”, liberamente ispirato al romanzo “Le relazioni pericolose”, scritto da Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, con Colin Firth, Annette Bening e Meg Tilly, uscito nell’89 solo un anno dopo l’omonima pellicola, più nota, di Stephen Frears (con John Malkovich, Glenn Close e Michelle Pfeiffer, ndr).
Dopo qualche anno lontano dal set, nel 1996 Oliver Stone gli affidò la direzione del film “Larry Flynt – Oltre lo scandalo”, dedicato al magnate italoamericano del porno, Bob Guccione, creatore della rivista Penthouse. Un racconto che faceva perno su quello che viene inteso come la base del diritto di libertà, sancito dal primo emendamento della costituzione americana, relativamente ai diritti di espressione e di libera stampa, che rimediò un Orso d’Oro al Festival del Cinema di Berlino. Tre anni dopo diresse “Man on the Moon”, biografia del comico statunitense Andy Kaufman, mentre è del 2006 “L’ultimo inquisitore”, con Natalie Portman e Javier Bardem, ispirato alla figura del pittore Francisco Goya, anche in questo caso un racconto che affresca un’epoca, a cavallo tra il ‘700 e l’800, attraversata da efferate atrocità come da importanti rivoluzioni culturali.
A causa di una malattia degenerativa della retina, che renderà nota nel 2011 durante un’intervista, dovrà abbandonare due interessanti progetti di regia come la storia di Charles Ponzi, fautore dell’omonimo schema truffaldino, e la trasposizione di “The Ghost of Munich (“Il fantasma di Monaco”), adattamento omonimo romanzo di Georges-Marc Benamou, in collaborazione con Václav Havel (drammaturgo e poeta suo connazionale, prima leader della primavera di Praga, poi dissidente imprigionato e in seguito eletto a presidente dell’Assemblea Federale Cecoslovacchia, fino alla divisione di Repubblica Ceca e Slovacchia, ndr) sulla figura di Édouard Daladier alla Conferenza di Monaco del 1938.
Nelle vesti di attore sono da ricordare “Heartburn – Affari di cuore (Heartburn”) dell’1986 e al fianco di Catherine Deneuve in “Les bien-aimés (“The Beloved”), pellicola del 2011 scelta per chiudere la sessantaquattresima edizione del Festival di Cannes.
Il merito, e la lezione ultima, di Forman è di avere sempre raccontato con uno stile realistico e contemporaneamente immaginifico vicende quasi private così come racconti di grande rilevanza storica con una versatilità che lo pone al pari dei grandi contemporanei della cinematografia mondiale.