Tocca rispondere con qualcosa di sgradevole a proposito dell’articolo di Michele Serra, del 20 aprile scorso, di cui ha scritto riguardo alle intimidazioni di alunni contro i loro professori. Sgradevole e necessario, almeno quanto le era il testo originale.
Nel suo articolo egli ha affermato che «Non è nei licei classici o scientifici, è negli istituti tecnici e nelle scuole professionali che la situazione è peggiore», per cui il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza. Una tesi smentita, per esempio, dalla vicenda della marijuana portata in gita scolastica da qualche studente del classico Parini di Milano, che ha addirittura costretto i loro professori a denunciarli, o nel novembre scorso il caso di spaccio di spinelli e farmaci da prescrizione medica nel cortile del liceo Virgilio di Roma, oppure, il mese prima, a Castelvetrano, sempre per spaccio davanti al liceo classico Pantaleo. Fatti che fanno a mazzate con una certa idea di scuola, come quella dimostrata dal liceo classico D’Oria di Genova sul cui sito si cui si leggeva testualmente «il contesto socio-economico e culturale complessivamente di medio-alto livello e l’assenza di gruppi di studenti con caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza culturale (come, ad esempio nomadi o studenti provenienti da zone particolarmente svantaggiate) costituiscono un background favorevole alla collaborazione ed al dialogo fra scuola e famiglia, nonché all’analisi, con apporti reciproci, delle specifiche esigenze formative, nell’ottica di una didattica davvero personalizzata». Un messaggio non così distante da quello del rapporto di autovalutazione del già succitato liceo Parini in cui si affermava che i propri studenti «in genere hanno per tradizione una provenienza sociale più elevata rispetto alla media». Ma anche meglio, si fa per dire, lo si leggeva nel rapporto di autovalutazione del liceo classico romano E.Q. Visconti, secondo cui «tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile». Sotto questo aspetto, quindi, quello della «struttura fortemente classista e conservatrice della nostra società (vanno al liceo i figli di quelli che avevano fatto il liceo)». Si deve quindi concordare con Serra, almeno fino a quando affronta il concetto stesso di populismo, da lui definito come «un’operazione consolatoria, perché evita di prendere coscienza della subalternità sociale e della debolezza culturale dei ceti popolari». Tema questo affrontato dal giornalismo serio svolto da chi visita le periferie e gli hinterland delle grandi città, tra case popolari che spesso paiono lasciate al proprio destino e un’immigrazione mal gestita che, proprio grazie alla demagogia di cui sopra, spinge gli italiani di quelle aree (anche di provenienza meridionale o addirittura straniera) a preferire le ricette salvifiche e razziste dei Salvini di turno rispetto alle politiche, non sempre così concludenti, di un centrosinistra spesso confuso nelle idee e inconcludente nei metodi. Un’attività svolta egregiamente, per esempio, da Concita de Gregorio o da Gad Lerner, e da tutti quei giornalisti che si recano là fisicamente, magari con i mezzi pubblici, e parlare con cittadini, comitati di quartiere e parroci.
Che poi «Il popolo è più debole della borghesia, e quando è violento è perché cerca di mascherare la propria debolezza, come i ragazzini tracotanti e imbarazzanti che fanno la voce grossa con i professori per imitazione di padri e madri ignoranti, aggressivi» indica probabilmente che Serra non passa spesso nei pressi di scuole elementari e medie nelle ore di entrata diurna e dell’uscita pomeridiana, quando i genitori di alcuni scolari parcheggiano in doppia fila, sui passi carrai o nei posti riservati ai mezzi dei disabili Suv e station wagon. O sa poco di alcuni dei genitori degli studenti del liceo, giornalisti, avvocati, magistrati, dirigenti o comunque parte di quella fascia di popolazione che ha avuto l’opportunità di conseguire una laurea, che pretendono arbitrariamente di insegnare ai docenti come svolgere il proprio lavoro e soprattutto con quali criteri giudicare i loro figli. In entrambi i casi si registra la stessa «…ignoranza, … aggressività, … mala educaciòn, … disprezzo per le regole» che tuttavia Serra, nel suo articolo, attribuisce soltanto ai meno abbienti.
Infine il giornalista conclude affermando che «è un danno atroce inferto ai poveri: che oggi come ieri continuano a riempire le carceri e i riformatori». Al di là dell’implicito, ma non troppo, classismo con cui si equiparano termini come poveri, ceti popolari e popolo, più adatto a un racconto di Charles Dickens che non alla realtà attuale, prima di parlare della popolazione carceraria e dei reati connessi si dovrebbe prestare maggior attenzione. I 56mila detenuti in Italia (dati del 2016) sono costituiti per il 97% da maschi, di cui poco meno della metà del totale deve scontare una pena inferiore ai cinque anni, poco più della metà hanno un’età inferiore ai 40 anni, il 64% del totale è nato in Italia, con un 34% di detenuti stranieri provengono per circa il 41,6% dall’Europa e il 46% dall’Africa, mentre negli istituti minorili si parla di poco meno di 500 persone detenute, di cui le ragazze sono 39 pari all’8,68% ovvero una percentuale più che doppia rispetto alle detenute adulte, mentre gli stranieri sono il 45,43% del totale, ovvero una percentuale di 12 punti in più rispetto alla popolazione detenuta straniera adulta. Una visione generale che poco tiene conto del censo, a differenza dell’analisi di Piercamillo Davigo, ex pool di Mani Pulite, attualmente presidente dell’ANM, il quale afferma che «la cosa grave in Italia è che i reati dei colletti bianchi sono scritti in modo tale da non consentire che vadano in carcere», e aggiunge «Il furto è un reato tipico della delinquenza comune, l’appropriazione indebita è un reato commesso solitamente da un colletto bianco. E’ praticamente impossibile commettere un furto semplice, quasi sempre è aggravato e per questo sono consentiti l’arresto e la detenzione. Per l’appropriazione indebita non è consentita la custodia in carcere». E continua affermando che «I reati dei soggetti che riempiono le carceri sono facili da commettere ma anche facili da scoprire e reprimere. E’ invece molto più difficile fare un processo per falso in bilancio che avere un processo per furto d’auto». Quindi, in soldoni, più si sta economicamente bene e, rispetto a certi reati, legati al ruolo sociale, meno si viene perseguiti. Un classismo di cui però non v’è traccia nel caso del femminicidio, omicidi compiuti indifferentemente dal censo o dallo status, con 114 vittime nel 2017, mentre al 20 di marzo di quest’anno se ne contano già 18, per la maggior parte ragazze tra i 18 e i 30 anni, nel 78% dei casi di nazionalità italiana, mentre, al netto di leggende metropolitane, il 74,5 per cento degli assassini ha nazionalità italiana, e nella maggioranza dei casi lo si trova all’interno della dimensione domestica, amorosa, amicale o di conoscenza. Si va dal delitto di Pinerolo, del 2017, in cui il disoccupato sessantaquattrenne Angelo Visciglia ha ucciso la moglie Battistina Russo, 52 anni, a quello di via Brioschi, di quest’anno, in cui la ventenne Jessica Valentina Faoro è stata uccisa dal tranviere Alessandro Garlaschi, all’omicidio di Alenya Bortolotto, nel 2002, assassinata dall’imprenditore del catering Ruggero Jucker, appartenente a un nota famiglia milanese. Tre tipologie sociali di assassino per un medesimo crimine.
Quindi rispetto a certi reati, anche particolarmente efferati, qualcuno potrebbe arbitrariamente ribaltare la tesi di Serra. Angelo Izzo, che insieme a Gianni Guido e Andrea Ghira, si macchiò del cosiddetto massacro del Circeo del 1975, durante il quale Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, di 17 e 19 anni, furono da questi violentate, drogate, seviziate e massacrate per un totale di 35 ore (solo la prima si salvò) era figlio di un costruttore romano e di una laureata in lettere, e frequentava la scuola dei cosiddetti figli di papà della Roma bene, il San Leone Magno. O nel caso dei serial killer veronesi, che a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 firmavano le loro efferate azioni con lo pseudonimo Ludwig, Marco Furlan e Wolfgang Abel, il primo figlio di un primario dell’Ospedale Civile Maggiore di Verona e in procinto di laurearsi in fisica presso l’Università di Padova mentre il secondo, già laureatosi in matematica a pieni voti, figlio di un consigliere delegato di una compagnia assicurativa tedesca (lavorava già nella stessa compagnia del padre). L’elenco potrebbe continuare con Pietro Maso, che nel ’91 insieme a tre suoi amici massacrò i genitori benestanti nella villetta del veronese per intascare la sua parte di eredità, o l’anno dopo con Giovanni Rozzi, a Cerveteri, responsabile di un crimine analogo per gli stessi motivi. Analogamente nel 2001, a Novi Ligure, Alessandria, i due fidanzati minorenni Erika De Nardo e Mauro Favaro, detto Omar, uccidono la madre e il fratello minore undicenne, Gianluca, di lei, nella villetta di famiglia a Novi Ligure in provincia di Alessandria, mentre il padre della ragazza, l’ingegnere Francesco De Nardo, si salva perché assente, o Paolo Pasimeni che, sempre in quell’anno, durante una lite per futili motivi (aveva falsificato i verbali di alcuni esami) uccide il padre, professor Luigi Pasimeni ordinario di Chimica all’Università di Padova. O, in ultimo, nel 2016, il caso, l’omicidio di Luca Varani, adescato via sms dai benestanti studenti universitari Manuel Foffo e Marco Prato (quest’ultimo suicida in carcere l’anno dopo, ndr) durante un festino a base di alcol e droga durato giorni, poi torturato e ucciso “solo per vedere che effetto fa” (testuali parole raccolte dal verbale di interrogatorio), con tanto di successiva difesa d’ufficio, per così dire, di Valter Foffo, padre di Manuel, a “Porta e porta”.
Sul rapporto esistente fra bisogno e criminalità è pur sempre interessante la tesi di Antonio Bassolino, ex presidente della Regione e due volte sindaco di Napoli, intervenuto sull’esplosione della criminalità minorile di quest’ultimo periodo, il quale ha affermato che anche in altre città italiane, oltre a Napoli, così come paesi esteri accadono gravi fatti di delinquenza giovanile e minorile, come nel caso di quest’anno della ragazza italiana di origini egiziane, Marian Moustafa, uccisa di botte a Nottingham da una gang di bulle. Inevitabilmente ovunque aggressioni e violenza si ripetono laddove esiste un forte degrado civile, e, nel caso di alcune aree del nostro paese, tutto è reso più difficile dalla contiguità con un diffuso humus mafioso, soprattutto se camorra, mafia, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita reclutano manovalanza fra i più disperati. Tuttavia, secondo le rivelazioni di Davide Leone, boss pentito del rione Traiano e legato al clan Puccinelli, nel caso di Mirko Romano, proveniente da una famiglia perbene, istruito, che non parla il dialetto partenopeo, già uomo di fiducia e killer di zio Mimì Pagano, la povertà non c’entra. Una propensione non determinata dal bisogno che, come abbiamo visto, investe i suddetti crimini dei colletti bianchi, spesso impegnati in attività apparentemente rispettabili ma operanti nel riciclaggio del denaro proveniente, per esempio, dal traffico di droga.
Trattando di un delicato argomento come la scuola, personalmente avrei preferito che Serra, nel suo tanto contestato articolo, almeno accennasse all’abbandono scolastico, tra i primi posti nell’area UE (la scuola secondaria di primo grado ha visto, tra il 2017 e il 2017, 14.258 abbandoni mentre nella scuola secondaria di secondo grado l’abbandono complessivo su due anni risulta pari al 112.240 studenti), o magari alla crescita esponenziale di nuovi bisogni rivolti al sostegno scolastico degli studenti (dalle condizioni più gravi e problematiche a quelle più lievi, legate ai cosiddetti bisogni educativi speciali, come dislessia, discalculia o disgrafia). Piuttosto che l’autentica piaga, prevalentemente italiana, dell’analfabetismo funzionale, propria di chi, pur essendo in grado di capire testi molto semplici, non riesce a elaborarne e utilizzarne le informazioni contenute (di cui Tullio De Mauro ha scritto «la regressione rispetto ai livelli acquisiti nel percorso scolastico colpisce dappertutto gli adulti. Occorre, quindi riflettere su stili di vita e assetti sociali che producono questi dislivelli di competenze e queste masse di deprivati tra gli adulti»).
Pretenderei, ma qui è una critica che potrebbe investire l’intero mondo dell’informazione, anche che a prescindere dallo stato sociale, dalla scuola frequentata e dalla famiglia di provenienza, si tornasse a parlare di libero arbitrio, quel bene che, da ultimo, ci permette più o meno autonomamente di scegliere se indirizzare le nostre azioni al bene piuttosto che al male.
Infine, dopo questa lunga riflessione, vorrei anche che Michele Serra, che nella sua carriera di giornalista ha sempre dimostrato intelligenza e sagacia, prima di trattare argomenti tanto spinosi scendesse almeno ogni tanto da quell’amaca.