Se un alieno giungesse oggi sulla terra e desse un’occhiata alla grande massa musicale, che comprende anche i video, il merchandising, senza contare i ricordi, e gli aneddoti relativi al più strano dei palcoscenici, potrebbe legittimamente pensare che Freddie Mercury (nome d’arte di Farrokh Bulsara) non sia morto il 24 novembre del 1991, ergo 25 anni or sono.
Cercando di evitare schematismi che poco, e male, si conciliano a un personaggio decisamente -larger than life-, paragonato a David Bowie sotto il profilo della spettacolarità camaleontica (forse anche perché pressoché coetanei, infatti il Duca Bianco era del ’47), o gli stessi Queen, la band storica nata dalle ceneri degli Smile in cui già militavano il chitarrista Brian May e il batterista Roger Taylor, avvicinati quanto a cori che poco avevano da invidiare agli immarcescibili Beatles o ai Beach Boys, secondo simili prospettive ci ridurremmo appunto a banalizzazioni.
Freddie Mercury è quello che si dice, ancora oggi, un animale da palcoscenico, non tanto perché kitsch o anche oltre ogni possibile senso del buon gusto (per l’epoca almeno!) tanto da farne un’icona all’istante (Lady Gaga, classe ’86, era ancora là a nascere) ma per l’unicità sia dell’artista che del personaggio. Ammetto che ancora oggi non ho compreso con quali criteri la rivista “Rolling Stone” lo abbia classificato soltanto come il 18esimo cantante di tutti i tempi, mentre credo sia molto più facilmente comprensibile il motivo per cui “Classic Rock” lo abbia piazzato al primo posto delle voci rock. Per tacere, inoltre, il fatto che all’interno del suo genere musicale, già poco più che adolescente (il ragazzo era classe ’46) sapeva suonare più che discretamente il pianoforte leggendo la musica, e comporre (oltre che cantare, ovviamente!).
Non so quanto sia corretto, ma più di un musicologo ha parlato di un’estensione vocale praticamente di quattro ottave, come dimostrerebbero i sopracuti in “Bohemian Rhapsody”, senza contare una capacità interpretativa decisamente al di fuori dell’ordinario, e una presenza scenica che definire carismatica è scherzare. Il tutto senza contare che è stato il frontman di una delle più straordinarie band di tutta la storia della musica, e non soltanto rock, una di quelle che nasce ogni decennio e non è detto che ne resista due. E, aggiungiamo, lui era i Queen così come gli altri Queen erano con lui, proprio come Bono Vox con gli U2, a differenza del Boss Springsteen che è alla testa di chi suona. E scusate se è poco!
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Un’ambizioso volare alto che, senza modestia, gli ha permesso di duettare alla pari con la soprano Montserrat Caballè in “Barcelona”, per un’unicità che va ancora oggi a prescindere dal marketing di immagine che, per esempio, ha sostenuto e sostiene un altro animale da palcoscenico, una star e un’icona come Madonna, sulle cui capacità vocali è tuttavia saggio e pietoso non discutere proprio.
Un mito oltre la morte impossibile da sostituire, e che soltanto in qualche modo è stato eguagliato con “Somebody to Love” nell’esecuzione live nel ’92 alla testa degli stessi Queen da parte di George Michael.
Ma quella è un’altra storia.