Robert Allen Zimmerman, classe 1941, meglio noto come Bob Dylan, da alcuni giorni non è più soltanto un cantautore e un compositore statunitense (oltre che un discreto attore). La qualità della sua opera letteraria, perché la musica è anche fatta di parole, gli è stata finalmente riconosciuta dall’Accademia Reale di Svezia attribuendogli il Premio Nobel per Letteratura di questo 2016 “per avere creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”. Una storia che, in qualche modo, prende le mosse già dal 1996, anno in cui il professor Gordon Ball del Virginia Military Institute scriveva alla reale accademia segnalando il valore dell’opera del musicista, destando allora discrete polemiche sia in patria che altrove.
Tuttavia, citando lo stesso menestrello, “The Times They Are A Changing” (“I tempi stanno cambiando”), il recente riconoscimento è certamente un gesto nel solco della premiazione di altri outsider, dall’italiano Dario Fo, nel 1997, ad Harold Pinter, nel 2005 (ricordando che le opere teatrali vel letterarie di questi ultimi, insieme a quella di Eduardo de Filippo, che purtroppo in Nobel non lo prese, sono tra quelle maggiormente tradotte al mondo, ndr). Ed è inoltre da ricordare che Dylan non nuovo a prestigiosi riconoscimenti, dal Pulitzer nel 2008, alla National Medal of Arts nel 2009, giusto per citarne due.
Ma, in soldoni e al di là dei preamboli, l’uomo della strada si potrebbe chiedere per quale motivo un Nobel per la letteratura sia andato proprio a lui, quando in lizza, ben più papabili, c’erano scrittori del calibro di Philip Roth, Aruki Murakami, Thomas Pynchon, Cormac McCarthy, Ngugi Wa Thiong’o, Joyce Carol Oates e Don de Lillo.
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Per prima cosa Bob Dylan, in 50 anni di vita artistica, dal folk alla svolta elettrica, fa parte dei grandi narratori dell’America più profonda e nascosta, raccogliendo l’eredità di Woody Guthrie, classe 1912, e in qualche modo anche dell’appena più vecchio Johnny Cash, classe 1932. Un mondo musicale che ha senza dubbio contaminato a vario modo anche Joan Baez, Bruce Springsteen e Tom Waits.
Secondariamente, strettamente connesso a quanto appena scritto, in questa musica, esattamente come in autori come J.D. Salinger, Jack Kerouak, James Baldwin e in qualche modo anche Charles Bukowski, troviamo l’eredità culturale dell’America più profonda, una sintesi di sound rurale, ballad, spiritual, blues, dust bowl ballads fino alle canzoni contro la guerra in Vietnam e il rock più genuino (alcune delle quali religiosamente conservate presso la Library of Congress). Un racconto parallelo in netta antitesi della luccicante American Way of Life, quella dei moderni hobo coraggiosamente narrata in decine e decine di canzoni, o un caso che più che reale sembrerebbe essere tratto dalla penna di un intelligente narratore, “Hurricane”, del ’75, l’allucinante storia del pugile afroamericano Rubin Carter, ingiustamente accusato di omicidio e incarcerato per quasi una ventina d’anni fino alla definitiva assoluzione.
Infine, pur nel rispetto delle opinioni di ognuno (perché anche Dylan può piacere o meno), quando lo stesso scrittore statunitense Don de Lillo ha dichiarato di essere contento per questo riconoscimento al per così dire collega poiché in questa decisione non c’è nulla che rappresenti per lui un problema considerandolo quindi un grande artista (oltre a essere un suo appassionato, come molti della sua generazione), dovrebbe mettere automaticamente a tacere certe polemiche, soprattutto nostrane, che lasciano veramente il tempo che trovano.