E’ facile parlare di satira, soprattutto dopo gli eventi luttuosi dell’8 e del 9 gennaio a Parigi, un po’ meno scriverne con cognizione di causa, prima di tutto onde evitare che un pezzo del genere diventi, del tutto involontariamente, oggetto di ridicolo.
Partendo da imprescindibili elementi oggettivi, sotto il profilo deontologico, nel nostro ordinamento la satira è una sorta di sorella minore della critica e della cronaca, esattamente nell’ordine inverso. Giocoforza, quindi, se la cronaca è sottoposta a una maglia più stretta, perché è un’attività di utilità sociale in quanto racconto di una notizia nell’interesse pubblico finalizzato alla sua divulgazione, la critica, in quanto esposizione di un pensiero personale derivante da un fatto di cronaca, viene necessariamente sottoposta a una disciplina meno stringente. Si può avere quindi una posizione fuori dal coro, quindi, e in questo caso l’unico limite è quello di evitare di raccontare in modo non veritiero il fatto in questione.
Per la satira, intesa come interpretazione ridicola della realtà, specchio deformante con connotazione comica, la disciplina prevista per cronaca e critica non è di fatto applicabile. Del resto la stessa giurisprudenza in questi casi è piuttosto divisa sull’interpretazione del reato di diffamazione, e nei rari casi in cui vi è condanna la pena è nei fatti sempre molto più bassa. Tutto questo vale per i giornalisti e/o vignettisti satirici, in primis, e poi per tutti gli altri. Volendo evitare di sprofondare in una dissertazione giuridica della questione, mi limito ad aggiungere che più o meno in tutti i paesi in cui vige un ordinamento democratico vi sono, mutatis mutandis, discipline con limiti più o meno simili ai nostri.
Rispetto a un profilo necessariamente soggettivo, di una certa comicità ci si deve chiedere prima di tutto che pubblico ha. Nell’ambito di una satira per così dire generalista, non di nicchia, è abbastanza improbabile che chi seguiva il vignettista Giorgio Forattini, quando pubblicava su “La Repubblica” sia lo stesso che da tempo ne apprezza il lavoro su “Il Giornale”. Su questo aspetto Geppi Cucciari, la celebre attrice, presentatrice e autrice comica, attraverso una lucida considerazione all’interno di un’intervista, ha onestamente ammesso che chi vedeva il suo programma “G Day”, condotto da su La7, non ero lo stesso pubblico che, negli stessi giorni, la seguiva sul palco del Festival di Sanremo accanto a Gianni Morandi, malgrado la cifra stilistica della sua ironia e gli oggetti della sua ironia (a differenza proprio di Forattini) fossero i medesimi. E a confermare questo profetico assunto è stata l’inaspettata contestazione, l’anno successivo, contro Maurizio Crozza salvato in corner dal conduttore Fabio Fazio, sempre sul palco dell’Ariston, dopo l’imitazione di Silvio Berlusconi, a dimostrare che il pubblico sanremese, o almeno una sua parte, non è quello dei suoi aficionado che ormai da anni lo seguono in spettacoli televisivi come “Crozza Italia”.
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Un ulteriore problema è poi la satira mascherata da altro, si tratti di politica o di informazione. E’ il caso di chi fa il comico, ma in un ruolo di fatto politico, sebbene comico lo sia stato davvero, ed è l’inviabile riferimento a Beppe Grillo. O quando a esercitare questo ruolo è un quotidiano nazionale, con titoli tanto esasperati, o, in alcuni casi, anche con giochi di parole, e per quanto possa sembrare lapalissiano, in questo caso l’unico efficace rimedio è dichiarare in partenza che cosa si sta facendo. Un conto è leggere un editoriale di Michele Serra in cui il giornalista e autore analizza in maniera critica (di cui sopra) un determinato fatto, un altro è ridere alle sue trovate, come si faceva con il settimanale satirico “Cuore” o durante il programma “Che tempo che fa”, di cui è uno degli autori. Ben altro conto è leggere certi titoli di alcuni quotidiani che dovrebbero fare informazione. E qui il condizionale è d’obbligo.
Un’ulteriore questione è successivamente posta dalla comicità definita politicamente scorretta, unpolitically correct, e in questo caso un bell’esempio è il comico franco-camerunense Dieudonné. Con il suo infelice repertorio, peraltro non così divertente, si è scagliato contro lo stato francese, ma soprattutto contro ebrei, islamici, cattolici, e anche contro gli africani, con contenuti tanti estremi di rasentare la propaganda nazista. Dopo essere stato aspramente criticato, poi perseguito, è stato alla fine addirittura arrestato (il 14 gennaio) per la battuta (veramente di pessimo gusto, a mio giudizio) “Je suis Charlie Coulybaly” (Amedy Coulybaly è il terrorista che ha ucciso prima una poliziotta e il giorno dopo quattro ostaggi nel suo assalto al negozio ebraico kosher di Parigi, ndr). Forse, citando il giornalista, autore e conduttore radiofonico, Luca Bottura (si veda http://lucabottura.net/2015/01/14/satira-e-liberta-di-espressione-non-si-arrestano-neanche-le-teste-di-minchia/), uno che di satira se ne intende, secondo un principio di opportunità, Dieudonné non meritava l’arresto. Di contro è pur vero che, per prima cosa, come già scritto, ogni ordinamento ha le sue leggi, senza contare che la satira non può né deve fare da scudo alla veicolazione di contenuti xenofobi, razzisti, piuttosto che omofobi o sessisti. Altrimenti qualche buontempone nostrano, in barba al reato di apologia di fascismo (legge n. 645, 20 giugno 1952, ndr) avrebbe la facile giustificazione per negare l’Olocausto o raccontare che i partigiani sono stati solo una banda di terribili banditi che ammazzavano donne e bambini inermi. Tanto si tratta di satira, direbbe qualcuno, e se non piace si può anche evitarla, proprio come spegnere la tv.
Inoltre, chi fa satira è parte integrante del gioco, e per il generale senso di responsabilità di cui sopra non può chiamarsi fuori in alcun modo. Per questo proprio la satira, secondo il principio del binomio ironia-autorironia, funziona principalmente se si prendono in giro gli altri, partendo però da noi stessi, un po’ il consolidato meccanismo impiegato da Woody Allen, Sarah Silverman e qui da noi da Moni Ovadia, e più in generale da buona parte della comicità yiddish.
Per questi motivi, a dispetto del fatto che possa piacere o meno, dopo che due esaltati estremisti religiosi ne hanno decimato la redazione, si può considerare vera comicità quella del settimanale “Charlie Hebdo”, in cui, sopra il disegno raffigurante il profeta Maometto, campeggia la scritta “Tout est pardonné”, tutto è perdonato.
Perché la satira di qualità sa ridere soprattutto di sé stessa, anche, e soprattutto, dopo una tragedia come questa.