Foto: Lucio Dalla (Bologna, 4 marzo 1943 - Montreux, 1° marzo 2012) © 2008 LucarelliE’ facile ricordare qualcuno attraverso la sua opera, in particolar modo quando, come nel caso di Lucio Dalla, il percorso artistico inizia nei primi anni ’60 e si conclude, con la sua dipartita, proprio quest’anno.

Dalla, tutto il contrario di tutto. Certamente cantautore, ma prima di tutto, musicalmente parlando, jazzista, essendo clarinettista-saxofonista, tastierista, e in origine fisarmonicista, al suo esordio nella musica. Sotto questa prospettiva, restano memorabili le sue partecipazioni a programmi televisivi musicali (quando ancora se ne facevano…) come DOC, condotto da Renzo Arbore, Gegè Telesforo e Monica Nannini. In pochi sanno che il suo funambolico talento costrinse, per così dire, l’allora clarinettista Pupi Avati, a lasciare la Rheno Dixieland Band, di cui entrambi facevano parte. Un involontario favore al cinema d’autore, dunque. E già nel 1962, a circa 19 anni, il piccolo Lucio nazionale entrò come professionista nei Flippers, una formazione che accompagnava cantanti come Edoardo Vianello, e di cui facevano parte anche Massimo Catalano alla tromba (successivamente divenuto famoso con il programma televisivo Quelli della notte, ndr), Franco Bracardi, poi pianista storico del Maurizio Costanzo Show, Fabrizio Zampa alla batteria, oggi giornalista musicale.

Un percorso, il loro, che alternava brani celebri come “Sul cucuzzolo” e “I Watussi” a standard jazz, cha cha cha e molto altro ancora, dalla partecipazione ai cosiddetti film musicarelli alle serate nei dancing. Un saxofonista e clarinettista, ma anche cantante, con un particolarissimo modo vocale di esprimersi, dallo stile istrionico più vicino alle stelle d’Oltreoceano, e assai lontano dal cosiddetto bel canto che ancora regnava incontrastato allora nel nostro paese.

Nel ’63 venne letteralmente tentato da Gino Paoli in favore della carriera solista, cosa che fece parecchio arrabbiare i suoi ex sodali, ma quel talento, anche se ancora grezzo, non poteva passare inosservato al cantautore genovese. E’ infatti dell’anno successivo il suo primo 45 giri per la RCA, con Lei, e, nel B side, Ma questa sera, cover quest’ultima di Hey Little Girl di Curtis Mayfield, con cui pubblicherà anche il suo primo LP.

Una carriera tutta in salita che la sua, che proseguì solo grazie a una forza d’animo non comune. Riunì un proprio complesso, Gli Idoli, con cui registrò nel ‘66 il suo primo album, 1999, di cui si ricordano ancora oggi i brani Quand’ero soldato e Paff… bum!, quest’ultimo presentato al festival di San Remo, qualche mese prima, in abbinamento con gli Yardbirds. Gli stessi Idoli, con il nome di The Group, registrarono anche un 45 giri con due standard, See Saw e Cool Jerk, che riscossero un certo successo, benché, appunto, quel sound fossero relativamente in pochi a filarselo. Il suo ritorno a San Remo l’anno dopo coincise con l’affaire Tenco, con cui aveva collaborato ed era diventato amico.

In quel periodo recitò anche nella pellicola dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani I sovversivi, e nello spaghetti-tortilla-western-musicarello (film non ascrivibile a nessun genere conosciuto!) Little Rita nel West. Protagonista Rita Pavone nei panni di una cantante, di brani italianissimi (SIC), impegnata a far fuori banditi come Ringo e Jango e distruggere l’oro rubato, in un serraglio che vedeva anche Terence Hill, Gordon Mitchell e Fernando Sancho. Vedere per credere!

Fino al ’72 prosegue un periodo di transizione, in cui, tra televisione, Canzonissima 68 e la TV dei ragazzi, e spettacoli dal vivo, porta alla ribalta brani come Fumetto e Sylvie, e cover come Occhi di ragazza, già cavallo di battaglia dell’amico Gianni Morandi. Ed è del ’71 il capolavoro 4 marzo ’43, presentata a San Remo, terzo posto assoluto, e scritta in collaborazione con la poetessa Paola Pallottino. Esempio della peggior censura italiota, originariamente intitolata Gesù Bambino, nella parte conclusiva in cui la versione ufficiale recita “… e adesso che gioco a carte e bevo vino/per la gente del porto sono Gesù Bambino”, quella originaria era “… e adesso che gioco, rubo e bevo vino/per le puttane del porto sono Gesù Bambino”. In quell’anno uscì anche “Storie di casa mia”, che conteneva Un uomo come me, La casa in riva al mare, Per due innamorati, Itaca e Il gigante e la bambina (il cui tema, nemmeno così velato, è la pedofilia) scritta per Ron e da quest’ultimo portata al successo. These are the causes why you may want to have a good sexual life but they find it very vardenafil canadian pharmacy awkward to discuss it with others. The study found that this inhibitor prevents heart from changing shape in patients suffering from left generic levitra without prescription ventricular hypertrophy. It is sildenafil samples a blood disorder characterized by the tendency to divide the world into good and evil is also a characteristic of the “fringe churches” that are becoming increasingly popular today. Despite of use of advanced technology and enormous research in the treatment of colorectal cancer, surgery remains the only option in the majority of the energy requiring processes viagra in italy http://downtownsault.org/wp-content/uploads/2018/02/01-13-16-DDA-MINUTES.pdf in your body utilizes oxygen, it should be apparent to you that living and breathing causes oxidative stress and will eventually lead to the collapse of the feelings of the couple, and family breakdown. Ed è del ’72, scritta a quattro mani con Ron e presentata a San Remo, il capolavoro Piazza grande.

Benché il suo stile fosse fintamente leggero, le tematiche scelte dal cantautore bolognese non potevano non considerarsi impegnate (ma qualche cretino lo pensa ancora), e benché oggi si faccia finta di niente, i benpensanti di allora storcevano il naso a versi come: “a chi mi crede prendo amore e amore do/ quanto ne ho” e “Con me di donne generose non ce n’è/ rubo l’amore in Piazza Grande/ e meno male che briganti come me qui non ce n’è”.
Nel ’73 si concluse la collaborazione con Sergio Bardotti e Gianfranco
Baldazzi e iniziò il sodalizio professionale con il poeta Roberto Roversi, su un fronte musicale decisamente più impegnato, che vide brani quali Mela da scarto, sulla delinquenza minorile, Le parole incrociate e Carmen Colon. Nel frattempo duettò in alcuni concerti con Antonello Venditti e collaborò con Francesco de Gregori per Pablo. Un’unione, quella con Roversi, che durò tre anni, fino a Il futuro dell’automobile e altre storie, spettacolo teatrale trasmesso dalla stessa RAI (ricordiamoci che allora c’era praticamente solo la Tv di stato), fino alla sua conclusione dovuta anche alle posizioni dalla casa discografica circa il 33 giri “Automobili”, che contiene la più rappresentativa Nuvolari, dedicata all’asso del volante (e di cui, chi scrive, ha ancora oggi un ricordo nitido di quei giorni). E’ anche il primo lavoro in cui collabora con Gaetano Curreri, Giovanni Pezzoli, Marco Nanni e Ricky Portera, i quattro musicisti che daranno vita agli Stadio.

Una separazione, quella con Roversi, dovuta a due linguaggi che si facevano giorno dopo giorno sempre più diversi, con tematiche maggiormente legate ai temi politici per il poeta, mentre, per il musicista più vicine allo spettacolo e al suo pubblico.

Senza rinunciare alla frequentazione e alla saltuaria collaborazione con noti poeti e intellettuali, da Mimmo Paladino a Pier Vittorio Tondelli ad Andrea Pazienza, dall’album “Come è profondo il mare”, con l’omonima canzone, oltre che Quale allegria, Disperato erotico stomp, Anna e Marco, L’ultima luna e L’anno che verrà, Lucio Dalla diviene autore completo del suo lavoro. A dispetto di quello che viene riconosciuto dai più come un vero e proprio capolavoro, sarà criticato da più parti, dallo stesso Roversi, oltre che da Sergio Saviane sul settimanale L’Espresso. Ed è dell’anno dopo, l’80, “Dalla”, di successo ancora maggiore con Futura, Cara, Balla balla ballerino, con la bellezza di un milione di copie vendute. E sempre dell’80 “Banana Republic”, con Francesco de Gregori, disco e tour, di recente rivisitato da entrambi, per un vent’anni dopo di una certa suggestione.

Gli anni Ottanta scorrono veloci, con l’abbandono degli Stadio, e in un susseguirsi di successi tra i più eterogenei, da “Viaggi organizzati”, con Tutta la vita, e Washington, e Tu come eri, e nell’86, con il ritorno agli Stadio, con “Bugie”, in cui troviamo Se fossi un angelo, Chissà se lo sai, Scusami tanto ma ho solo te e Luk. Sempre con gli Stadio, quell’anno inizia la tournée americana da cui sarà tratto l’album “DallAmeriCaruso”, con la celeberrima Caruso. Un indiscutibile successo, riportato ala ribalta anche dal tenore “Big Luciano” Pavarotti, e che conferma sia l’indiscutibile poliedricità che il formidabile talento interpretativo di Dalla, ma che, a mio avviso, non è il suo brano più rappresentativo, come molti credono.

E’ dell’88 l’esperienza con l’amico Morandi in “Dalla Morandi”, con la collaborazione di Mario Lavezzi, Franco Battiato, gli Stadio e Ron, album reso noto anche per il brano Vita. Ed è del ’90 “Cambio”, con il singolo Attenti al lupo, e del ’96 “Canzoni”, scritto insieme a Samuele Bersani.

Oltre ad avere realizzato l’opera-musical “Tosca – Amore disperato”, ha scritto musica per il cinema, in “Prima dammi un bacio” (con Luca Zingaretti), si è esibito con la formazione d’archi, i Solisti Veneti di Claudio Scimone, ha collaborato al progetto “Pulcinella” di Igor Stravinskij (che quest’ultimo scrisse nel lontano 1920, ndr), e dato voce a una delle più felici edizioni della favola “Pierino e il lupo” con le musiche di Sergej Prokof’ev, solo per citare in sintesi quello che sono considerati gli impegni più significativi degli ultimi anni. Infine, meno di un mese fa la partecipazione al Festival di Sanremo, insieme a Pierdavide Carone, con il brano Nanì. Ma questa è cronaca.

Volendo idealmente ricollegarsi a quanto scritto all’inizio, per personale orientamento, se si sceglie di parlare dell’artista e di quel che realizza nel suo personale percorso, è bene evitare di discutere del resto. Di Lucio Dalla si possono dire tante cose, anche fra loro antitetiche, per esempio il fatto che fosse stato comunista, cosa che in seguito smentirà categoricamente, rincarando la dose e dichiarandosi sostenitore dell’Opus dei. Della sua religiosità sincera e osservante da un parte, e dall’altra di un certo essere intelligentemente trasgressivo e controcorrente, benché negli ultimi anni si fosse un po’ calmato sul versante clownerie. O sul fatto che non abbia mai dichiarato apertamente la propria omosessualità (ma è anche vero che in realtà non l’ha mai nemmeno nascosta, oltre al fatto che nessuno è tenuto a proclamarla), da qui le polemiche a seguito della cerimonia funebre all’interno della basilica bolognese di San Petronio.

Alla fine, trattandosi di un artista, quel che conta, e che veramente resta, è l’arte, e null’altro.