Foto: Tomas Milian , screenshot dal film Squadra volante
Foto: Tomas Milian , screenshot dal  film Squadra volante
Foto: Tomas Milian , screenshot dal film Squadra volante

Alcuni giorni fa pensai quali fossero gli attori che, all’interno del panorama della Settima Arte, il cinema, per la loro generazione più di altri hanno rappresentato in qualche modo l’essenza dell’attore italiano, e purtroppo una delle risposte mi è stata fornita dalla notizia della scomparsa di Tomás Quintin Rodriguez, al secolo Tomas Milian.

84 anni, vissuti intensamente, con una carriera che ha visto la sua partecipazione a oltre un centinaio di pellicole, e qualcuno potrebbe già da adesso correttamente obiettare che, essendo cubano, Milian non era italiano. Invece credo proprio che, tralasciando questo dettaglio, sia riuscito anche meglio di altri suoi colleghi, nostri connazionali, a incarnare l’italianità che sintetizza perfettamente l’alto con il basso, come il sublime con il pecoreccio. Ma andiamo con ordine

Figlio di un generale cubano agli ordini del dittatore Machado, quando quest’ultimo venne spodestato da Batista (a sua volta cacciato anni dopo da Fidel castro, ndr), il padre, con cui l’attore ebbe un rapporto conflittuale, finì in carcere. Dopodiché, tutta una serie di peripezie, primo fra tutti proprio il suicidio del genitore, portarono il nostro a terminare gli studi nella natia isola e successivamente a dirigersi a Miami, come molti cubani, per iscriversi all’Accademia teatrale della Florida prima, e poi a New York entrando all’Actors’ Studio di Elia Kazan e Lee Strasberg.

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Dopo essersi fatto le ossa come attore teatrale sui palcoscenici della Off-Broadway, partecipa alla serie “Decoy” della NBC, viene prima notato e poi invitato da Giancarlo Menotti, insieme a Jean Cocteau, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, e da questo momento inizia la sua carriera a noi più nota. Come anticipato, un percorso in cui stato protagonista del cinema d’autore nazionale, con alterne fortune e altrettanto alterni ruoli, da “La notte brava” e “Il bell’Antonio” di Mauro Bolognini, in un episodio di “Boccaccio ’70” diretto da Luchino Visconti, a “Le soldatesse” di Valerio Zurlini, “I cannibali” di Liliana Cavani, “L’amore coniugale, per la regia di Dacia Maraini, “La luna” di Bernardo Bertolucci, “Identificazione di una donna” di Michelangelo Antonioni, a “Gioco al massacro” di Damiano Damiani, oltre che internazionale con “Pazzi borghesi” di Claude Chabrol, “Oltre ogni rischio” di Abel Ferrara, “Revenge – Vendetta” regia di Tony Scott, “Havana” di Sydney Pollack, “JFK – Un caso ancora aperto” di Oliver Stone, “Amistad, regia di Steven Spielberg, “Traffic” di Steven Soderbergh, a “The Lost City” di Andy Garcia, fino al conclusivo documentario autobiografico “The Cuban Hamlet”, diretto dal regista Giuseppe Sansonna, trasmesso nel dicembre 2014 su Rai Movie.

Se questo è stato l’alto, e spesso il sublime, dall’altra parte Milian è almeno altrettanto noto per gli spaghetti western come “Corri, uomo, corri” di Sergio Sollima, “Tepepa” di Giulio Petroni e “Vamos a matar, companeros” di Bruno Corbucci, gli esilaranti comico-western “Ci risiamo, vero Provvidenza?” di Alberto De Martino, e “Il bianco, il giallo, il nero” di Sergio Corbucci, il celebre horror “Non si sevizia un paperino” di Lucio Fulci, a cui aggiungere anche una breve incursione nel cinema cosiddetto scollacciato degli anni ’70, con “40 gradi all’ombra del lenzuolo”, film a episodi di Sergio Martino (con Edwige Fenech), “Uno contro l’altro, praticamente amici” (con Anna Maria Rizzoli e Renato Pozzetto) e “Messalina, Messalina!”, questi ultimi entrambi di Bruno Corbucci.

A questi seguono i polizieschi, dall’instant movie “Banditi a Milano” di Carlo Lizzani, a “Roma a mano armata” di Umberto Lenzi e “La polizia accusa: il Servizio Segreto uccide” di Sergio Martino. Ma, a ben vedere, di questo genere esiste un sotto-genere, il poliziottesco, di cui l’attore cubano è stato quasi l’indiscusso protagonista, a partire da un film del ’76, “Il trucido e lo sbirro” diretto da Umberto Lenzi, in cui per la prima volta appare il ladruncolo soprannominato er Monnezza, un personaggio in relativamente breve tempo trasformato, e trasposto dall’altra parte della barricata nel commissario Nico Giraldi nelle pellicole dirette da Bruno Corbucci, da “Delitto a Porta Romana”, dell’80 a cui seguiranno “Delitto al ristorante cinese”, “Delitto sull’autostrada”, “Delitto in Formula Uno” e e “Delitto al Blue Gay”. Un archetipo, questo, da lui stesso amato e per cui vinse di fatto il Marc’Aurelio d’Oro alla carriera, nel 2014, alla Festa del cinema di Roma, accompagnato dall’autobiografia “Monnezza amore mio”.

Un filone, quest’ultimo, trucido, proprio dal titolo sopra citato, forse dalle battute un po’ sciocche e soprattutto grevi (la celebre “So’ più arrapato de’ ‘na rapa”) ma tutto sommato onesto e realizzato con grande professionalità. In qualche modo l’altra faccia di un mattatore che ha prestato il proprio indiscusso talento per l’altra faccia di un’Italia, forse meno raffinata e che si divertiva con poco, che aveva necessità di divertirsi e che riusciva a farlo con semplicità.