Foto: Silvio Castiglioni ed Emanuela Villagrossi © Valentina Bianchi © Teatro CRT Milano
Foto di scena: Silvio Castiglioni ed Emanuela Villagrossi © Valentina Bianchi

Gian Giacomo Mora, barbiere, e Guglielmo Piazza, commissario di sanità, furono condannati alla pena capitale con l’accusa di essere due “untori”, ovvero portatori di peste e quindi responsabili della terribile epidemia avvenuta a Milano del 1630. In un periodo in cui le autorità cercavano responsabili per il diffondersi della malattia, due donne che abitavano dalle parti di piazza Vetra, Caterina Rosa e Ottavia Boni, credettero di scorgere un uomo con il cappello nero calato sul viso – per l’appunto, Guglielmo Piazza – mentre sfregava la mano destra contro un muro. Precipitatesi in strada, le due donne videro, o ritennero di vedere, alcune macchie gialle, e dettero l’allarme. La parte considerata infettata venne subito bruciata e coperta di calce, ma il Capitano di Giustizia, chiamato sul luogo, confermò comunque la presenza di unto. Il Piazza fu subito individuato e arrestato: sotto tortura, fu costretto a confessare una colpa inesistente e a fare i nomi dei suoi presunti complici. Da qui il coinvolgimento di Gian Giacomo Mora, il suo barbiere, motivato dal fatto che pochi giorni prima gli aveva preparato su commissione un olio curativo contro la peste. Un terzo “complice”, Don Giovanni Gaetano Padilla, nobile spagnolo, fu subito rilasciato grazie ai suoi natali. Una sentenza del 27 luglio condannò Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora alla morte, la casa del barbiere fu distrutta e sulle macerie fu eretta una colonna – detta infame- e una lapide, con un’iscrizione in perfetto latino secentesco che commemorava l’evento. Solo a seguito di una denuncia di Pietro Verri con il saggio Osservazioni sulla tortura del 1778, la Colonna Infame venne abbattuta e la lapide deposta al Castello Sforzesco. Alessandro Manzoni scrisse, nell’arco di un periodo relativamente lungo, il saggio storico Storia della colonna infame, un testo radicalmente legato al romanzo I promessi sposi e che avrebbe dovuto far parte del V capitolo del IV tomo dell’opera della prima edizione, intitolata Fermo e Lucia. La tormentata insoddisfazione dell’autore lo portò alla rivisitazione del romanzo e l’omissione di quell’appendice storica che fu pubblicata successivamente, nel 1840, con il titolo noto. Da qui, come già ebbe acutamente a osservare Leonardo Sascia, vi è una sostanziale differenza tra la posizione del Manzoni e quella di Verri: se per quest’ultimo l’episodio si deve legare unicamente alle carenze istituzionali e legislative di garanzia del tempo, per l’autore de I promessi sposi è invece dovuto a responsabilità individuali che comportano a rivelare l’ineluttabilità del male presente nell’animo umano. Al Teatro Salone di Milano Silvio Castiglioni coglie questo spirito per lanciare con il suo spettacolo, diretto da Giovanni Guerrieri, un monito nei confronti dei pregiudizi e delle colonne infami di ogni tempo e luogo.

La scena è allestita con due divani, un tappeto, molti libri, una lavagna, cose e oggetti del ricordo, pieni di polvere, elementi di conservazione della memoria e della paura, tra luci, ombre e il respiro di un vento spettrale. Castiglioni stesso ed Emanuela Villagrossi interpretano alcune pagine del testo manzoniano in un climax percettibile di tensione. Un ritmo che pare a tratti salmodiato, poi esplode verso una lettura che richiama le modulazioni del presente come di un futuribile e inquietante avvertimento. Gli oggetti si muovono, la colonna si compone minacciosa, tutto pare appartenere a un meccanismo dove l’elemento cronotopo viene diffranto da un grido che rivela la natura di un male nascosto mai sopito. La Colonna Infame non è più quindi il capitolo oscuro di un periodo storico remoto, ma il simbolo di un orrore che respira, al di là del tempo e dello spazio, negli alveari ciechi di una metropoli del presente come di un luogo del divenire. La semantica manzoniana rivela l’incoscienza di un’umanità sempre pronta a rivestirsi con il manto malvagio del conformismo ipocrita, del populismo giustizialista, della gogna pubblica, cominciando con lo svelare la “sua” Milano al di là di una presunta supremazia evolutiva. E persino i versi di Nino Rossi Milan, bèla Milan, assumono toni dai tratti grotteschi, ironici nella loro semplicità, a chiusura di un quadro raccapricciante che questo straordinario spettacolo choc dipinge, suggerendo una diversa consapevolezza nell’animo di chi lo guarda e ascolta.

 

Giudizio: ****

 

Produzione CRT Centro di Ricerca per il Teatro

In collaborazione con Celesterosa / I Sacchi di Sabbia

Con il sostegno di Regione Toscana


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da Alessandro Manzoni

Un progetto di Silvio Castiglioni ispirato da Sisto Dalla Palma

Con Silvio Castiglioni, Emanuela Villagrossi

Consulenza letteraria Luigi Weber

Regia di Giovanni Guerrieri

Disegno luci: Giuliano Bottacin e Anna Merlo

Assistente scenografo: Petra Trombini

Milano, CRT Salone, via Ulisse Dini 7

Dal 6 al 25 marzo 2012

www.teatrocrt.it