Prince (Prince Roger Nelson, Minneapolis 7 giugno 1958 – Chanhassen 21 aprile 2016) al concerto di Coachella nel 2008
Prince (Prince Roger Nelson, Minneapolis 7 giugno 1958 – Chanhassen 21 aprile 2016) al concerto di Coachella nel 2008
Prince (Prince Roger Nelson, Minneapolis 7 giugno 1958 – Chanhassen 21 aprile 2016) al concerto di Coachella nel 2008 © Scott Penner

Vita e opera di un genio musicale

Di Prince Roger Nelson, meglio noto come Prince, ho un’immagine pressoché indelebile stampata in testa, una fotografia in quadricromia che lo ritraeva a bordo di una motocicletta custom visibilmente più grande di lui (faceva anche lui parte della categoria dei diversamente alti). Erano i primi anni ’80, il magazine in questione era “Topolino” e io fui immediatamente incuriosito da questo particolare personaggio che qualche mio compagno di scuola non proprio tenero, e sicuramente assai poco lungimirante, riteneva essere un clone di Michael Jackson.

Da lì a poco tutto il pubblico mondiale si sarebbe reso conto che quel cantante, il cui nome d’arte sembrava essere il marchio di una birra, ma che in realtà era un tributo alla band “Prince Rogers Trio” in cui militava il padre anch’egli musicista, sarebbe entrato nella classifica pubblicata da “Rolling Stone” al 27° posto dei migliori artisti di sempre.

Oggi diremmo che il suo esordio fu con il botto, in quanto il suo primo album, anno di grazia 1978, dal titolo “For You” lo realizzò per la Warner a soli 20 anni, suonando praticamente tutti gli strumenti, oltre che cantandolo, ovviamente.

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Una carriera che soltanto sei anni dopo, con “Purple Rain”, un doppio successo musicale cinematografico, lo lanciò in vetta alle classifiche dei singoli, degli album e dei lungometraggi, un tris che era riuscito soltanto ai quattro Fab Four di Liverpool (scusate se è poco!). A questo aggiungiamo l’Oscar al film come migliore colonna sonora con brani originale, il Golden Globe al brano “When Doves Cry” come miglior canzone originale, 80 milioni di dollari di incassi, solo negli States, mentre il disco vendeva 13 milioni di copie, negli USA, restando 24 settimane consecutive ai vertici delle classifiche. Con l’ottica, e la situazione, odierna tutto questa ci sembra quasi fantascientifico, ma  per un simile risultato gli venne dato l’appellativo di genietto di Minneapolis.

Senza voler fare un articolo compilatorio, prima di tutto perché la corposa produzione di quest’artista richiederebbe svariate pagine, e poi perché i successi di Prince risalgono praticamente fino all’altroieri, questi fu quanto di meglio la cultura pop, e non solo pop, produsse tra la fine degli anni ’70 e i glam anni ’80. Prima di tutti egli fu, letteralmente, un autentico animale da palcoscenico, questo senza avere le doti da ballerino di Michael Jackson e senza necessariamente la ruffianeria di chi cavalca con intelligenza tutte le mode, come Madonna. Fosse un’esibizione dal vivo, come in un videoclip (allora si chiamavano così), Prince, con o senza chitarra a tracolla, con indosso uno dei suoi completi policromi post swinging London, o addirittura a torso nudo, alla Mick Jagger per intenderci, quasi sempre circondato da splendide ragazze (con alcune delle quali ebbe anche delle storie), tra le quali Apollonia e Carmen Electra, era assolutamente a suo agio sulla scena. Tutto questo sempre a cavallo tra gesti al limite dell’esplicito, per cui si meritò il cosiddetto Parental Advisory – Explicit Lyrics (“Avviso ai genitori – Contiene testi espliciti”), un’ironia forse a tratti ruffiana ma sempre divertente, e toni un po’ più sobri, per non dire quasi epici.

Dato il suo linguaggio musicale, oltre che il suo stile, il trombettista jazz Miles Davies con cui collaborò lo paragonò addirittura a Duke Ellington, soprannominato the Duke, alias il Duca, un titolo immaginario tributato soltanto a un’altro artista, the White Duke, il Duca Bianco, ovvero David Bowie. Dal punto di vista musicale, senza voler aggiungere nulla a quest’opinione, in qualche modo Prince apparteneva a una classe di musicisti di almeno due generazioni prima della sua, tale per cui il paragone tra lui e Little Richard, altro musicista fatto e finito, oltre che vero frontman, calza a pennello. Di contro faceva anche parte, insieme al citato Bowie, a Sting, a Peter Gabriel, a Bruce Springsteen e a pochi altri, dell’ultima generazione di validi musicisti che ancora negli anni ’80, e ’90, riusciva a riempire stadi e arene per concerti di tournée quasi epiche. Quanto alle sue collaborazioni spaziano da Lenny Kravitz e George Harrison, solo per citare due nomi quasi a caso.

Fu anche tra i pochi a lasciare volontariamente la major con cui lavorava, la Warner, e a rimetterci il nome d’arte, legato ad alcuni master di proprietà della casa di produzione. Si ribattezzò così  TAFKAP, acronimo di The Artist Formerly Known As Prince, e successivamente come The Artist, sebbene tutti avrebbero continuato a chiamarlo con il suo vero nome, una lotta colpi d’ironia contro la major, con cui resterà in lotta per diverso tempo, mentre la sua produzione, sempre di altissimo livello, procedeva instancabilmente. A questo includiamo la sua storia con la ballerina e cantante portoricana Mayte Garcia, divenuta successivamente sua moglie, nella finzione una giovanissima principessa egiziana all’interno del cosiddetto Love Symbol Album, di fatto privo di un vero e proprio titolo.

Quando viene a mancare un artista alla fine, dopo lo sgomento, le lacrime, per alcuni, e l’inevitabile senso di mancanza, ci si chiede che cosa ha lasciato dal suo percorso professionale, e mai come in questo caso possiamo serenamente affermare che Prince, per quanto ha detto davvero molto, avrà ancora altrettanto da suggerirci sotto molteplici punti di vista negli anni a venire.