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Foto: logo Festival © Festival Sanremo 2017

Una breve riflessione (a bocce ferme)

“Perché Sanremo è Sanremo”, recita l’auto-celebrativo jingle, più o meno come il Natale, che è sempre il Natale e quando arriva arriva. Ma al di là di un semplice, e alquanto banale, slogan, per un Festival della Canzone Italiana che dura ormai dai fatidici giorni della Merla del gennaio 1951, un appuntamento sopravvissuto ai pruriginosi e perbenisti anni ’60, alla stagione stragista, a due referendum, divorzio e aborto, all’edonismo degli anni ’80, alla fine della guerra fredda e al crollo del muro di Berlino fino a Tangentopoli e all’Italia degli anni di fango (citazione da Indro Montanelli, ndr) non è affatto male.

Come avviene anche per il calcio, di cui tutti ne parlano per giorni cogliendone tuttavia alquanto raramente il senso generale, questa kermesse canora possiede alcune caratteristiche che in qualche modo, come anticipato, vanno oltre la propria storia e il proprio essere. Sanremo nasce al pari di un quasi monopolio, almeno nell’esecuzione, con un’orchestra dal vivo che accompagnava Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano, che si spartivano una ventina di brani, per passare poi più o meno a una vera competizione nazionale, per intenderci quella in cui Domenico Modugno vinse con il brano “Volare”, anno di grazia 1958, al primo playback (allora rigorosamente vietato!) della storia, nel ’64, con Bobby Solo, in coppia con Frankie Lane, impedito da una laringite, con “Una lacrima sul viso”.

I suoi diretti derivati erano essenzialmente la commercializzazione dei vinili, 33 e 45 giri, oltre ai passaggi radiofonici e televisivi, e le esibizioni dal vivo in Italia e all’estero. Un’evoluzione che ha superato in scioltezza la contestazione del ’68, rottamando il cosiddetto reuccio Claudio Villa, e con lui, anzitempo, altri cantanti ben più giovani, all’interno di un avvicendarsi modernista, ma solo nelle forme, che ha portato in seguito alla soppressione dell’orchestra, fortunatamente reintrodotta qualche decennio dopo, e che ha visto singoli, duetti, terzetti e complessi vari, dall’eterna ripetizione dei cosiddetti cantanti di Sanremo, che si distinguono o distinguevano da quelli che al festival proprio non ci vanno (la citazione è di Antonello Venditti) fino alle intelligenti, e assolutamente birichine, incursioni di Elio & le Storie Tese, nel ’96, nel 2013, e nel 2016, e dei Pitura Freska, purtroppo soltanto in una nel ’97.

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Un’alternanza di conduttori totalmente gattopardesca, all’insegna del cosiddetto cambiare tutto per non cambiare niente, che ha visto la turnazione dei più grandi personaggi televisivi, in primis Pippo Baudo e Mike Bongiorno, e soltanto in questa sede in quest’ordine, a caduta, fino a una delle meno memorabili conduzioni, quella dei figli di, con Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi (la seconda, al secolo Paola Gonzales Bosé, figlia del celebre torero e di Lucia Bosé, e il terzo figlio del celebre attore Anthony Quinn, ndr) nell’1989. I figli so’ piezz’ ‘e core, e ricordiamoci che siamo pur sempre in Italia.

Come mi è già capitato di scrivere, il Festival è prima di tutto un più o meno divertente, appassionante, e per taluni interessante, spettacolo televisivo, e non soltanto perché è trasmesso in tv. La presenza di attrici/attori tout court, di attrici/attori comici (che, se brave/i non sono meno dei primi, anzi), come di rappresentanti delle forze dell’ordine, della protezione civile, di lavoratori indefessi, in cassa integrazione o esodati, di famiglie numerose e debordanti, e compagnia cantante assortita, con ovviamente annesso un concorso canoro certamente di buon livello a giustificare tutto il resto gli permette di essere un meraviglioso mutaforma in grado di essere più o meno tutto il contrario di tutto, un Leviatano che, alla bisogna, si tramuta in una Fenice che risorge meravigliosamente dalle proprie ceneri senza colpo ferire. E tanto basta, soprattutto quando, seppure raramente, vengono veicolati anche messaggi sociali e/o civili, l’ultimo in ordine di tempo dedicato al caso Regeni. Ed è bene che sia così.

Al contrario, il vero problema è il punto di vista del pubblico che lo vede. Perché qualora chiunque di noi dovesse cercare qualcos’altro da questo meraviglioso monstra vel prodigia, travalicando il noumeno kantiano, la cosa in sé, Ding an sich, la realtà inconoscibile e indescrivibile alla base dei fenomeni osservati al di là dell’apparenza che in fondo in fondo risiede nella mente umana, ponendosi alla ricerca dell’essenza musicale o di chissà di cos’altro ancora, sbaglia, e di grosso.
Perché, nemmeno troppo in fondo, Sanremo è Sanremo. E nient’altro.