Foto: Enzo Jannacci (3 giugno 1935 – 29 marzo 2013)
Foto: Enzo Jannacci (3 giugno 1935 – 29 marzo 2013) © 2009 Lucarelli

Di certo Enzo Jannacci è stato un musicista eclettico, fuori da ogni schema predefinito, senza freni o regole che ne condizionassero un percorso artistico unidirezionale. Lo dimostrano la sua presenza come precursore, insieme a Tony Dallara, Adriano Celentano, Ricky Gianco e molti altri, del rock italiano, in qualità di tastierista prima dei Rocky Mountains e successivamente dei Rock Boys alla fine degli anni ‘50, unitamente all’esperienza con Giorgio Gaber nella formazione del duo “I Due Corsari”, che debuttò nel 1959 con alcuni 45 giri e due flexy-disc usciti in abbinamento alla rivista televisiva Il musichiere, e alla frequentazione di musicisti jazz dello spessore di Chet Baker, Stan Getz e Franco Cerri, con i quali incise parecchi dischi. Lo testimoniano la scuola di Bud Powell, che gli insegnò a suonare la tastiera prevalentemente con la mano sinistra, come la collaborazione con numerosi esponenti della nuova corrente genovese, quali Gino Paoli e Luigi Tenco. Di sicuro Enzo Jannacci è stato poi una presenza sul palcoscenico altrettanto versatile, che va dalla scrittura da parte del regista teatrale Filippo Crivelli nel 1962 per lo spettacolo Milanin Milanòn, in cui recitò insieme a Tino Carraro e Milly, alle prime esibizioni di cabaret al Derby di Milano nel 1963, mentre era pianista nella tournée dell’amico Sergio Endrigo, dove conobbe Dario Fo, Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto, per continuare con le sue pièce teatrali negli anni ’70, di cui due, Il poeta e il contadino del 1973 e Saltimbanchi si muore del 1979, furono portati quasi immediatamente in televisione. Indubbiamente, Enzo Jannacci non pagò nemmeno l’inesperienza del set televisivo, sapendosi muovere con disinvoltura fin dal principio di fronte alle telecamere, come dimostra il suo esordio, del 1964, nel programma di Mike Bongiorno La fiera dei sogni, in cui interpretò il suo capolavoro in dialetto milanese, scritto con Dario Fo, El pòrtava i scarp del tennis. Riuscì a essere incisivo anche sul grande schermo, sia da comparsa come nel film La vita agra di Carlo Lizzani del 1963, dove canta L’ombrello di mio fratello in un locale all’arrivo del protagonista interpretato da Ugo Tognazzi, sia “in parte”, come nel film di Marco Ferreri L’udienza (1971), in cui impersona Amedeo, uno smarrito ufficiale in congedo, che muore sotto il colonnato di San Pietro dopo aver tentato invano d’incontrare il Papa. In tutte le poliedriche espressività della sua poetica, è altrettanto inequivocabile che Jannacci, al di là della ricerca di nuovi linguaggi, ha sempre scoccato una freccia a favore di chi è diverso, emarginato, escluso: un riguardo dai risvolti spesso ironici, tutt’altro che patetici, in molti casi inebriati da una forte satira politica e sociale, e tuttavia tesi a un umanesimo che fa della difesa dei più deboli il proprio vessillo e che spiega il sodalizio quarantennale dell’artista dei Navigli con Giorgio Gaber.

Canzoni come Ho visto un re, uno dei brani simboli del ’68, cantato insieme a Dario Fo e un coro di accompagnamento, denso di metafore a sfondo politico, o pezzi come Vengo anch’io no tu no, a simbolo di un personaggio che viene respinto dalla società, unicamente per il gusto di avere qualcuno da emarginare, sono emblematici della poetica di Jannacci. Quest’ultimo brano conteneva anche una strofa, rimossa per ragioni legate alla censura, che faceva precisi riferimenti alla tragedia dei minatori italiani a Marcinelle, in Belgio, nonché alla dittatura del generale congolese Mobutu, il cui operato contro i diritti umani scuoteva in quel periodo le coscienze di parecchi intellettuali e politici. Sempre sugli emarginati, Jannacci si era del resto già espresso proprio con El pòrtava i scarp del tennis, la cui introiezione (“el parlava de per lù”) configura in realtà l’aspettativa di un clochard (barbòn) che “rincorreva già da tempo un bel sogno d’amore”. Utopia sentimentale che appare in tutta la sua forza anche nel Giovanni telegrafista, adattamento dell’omonima poesia (João, o Telegrafista) dello scrittore brasiliano Cassiano Ricardo, un componimento che rimane tra i capolavori musicali dell’artista milanese.

Jannacci del resto espresse la sua umanità anche come medico, che lo portò al termine degli anni ‘60 fino in Sudafrica a collaborare con il celebre cardiologo Christian Barnard, grazie al quale approfondì notevolmente le sue conoscenze specialistiche. Tornato in Italia, anche se la sua notorietà subì un calo, continuò a scrivere e incidere esercitando contemporaneamente la professione di medico: sono dell’inizio anni ’70 gli LP La mia gente e Jannacci, nei quali sono contenuti brani di rilievo come Mexico e nuvole e Faceva il palo, mentre è del 1975 il celebre album Quelli che…

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Dischi, recital teatrali, presenze televisive continuarono ad alternarsi nei decenni successivi. Da rilevare l’album Parlare con i limoni del 1987, a cui seguì un tour per il suo lancio, la trasmissione in sette puntate L’importante è esagerare del 1989, in accompagnamento a un’intervista concessa sul Naviglio, e il suo ultimo spettacolo itinerante Tempo di pace… Pazienza! alla fine di dicembre dello stesso anno. Autore di quasi trenta album, Jannacci tornò a far parlare di sé la critica negli ultimi anni di vita. Il suo ultimo album live, The best. Concerto vita miracoli, risale alla fine del 2008.

La morte dopo lunga malattia, avvenuta il 29 marzo scorso, non ne esautora di certo la presenza artistica e culturale, nel capoluogo lombardo e non solo. La poetica di Enzo Jannacci rimane un insegnamento per i presenti e i posteri, interprete di una Milano dai tratti surreali e grotteschi, capace però di narrare al mondo miserie e sentimenti di un’umanità che, per vezzo o proprio perché esageratamente umana, rischia troppo spesso di dimenticare una parte importante di sé.