Foto: Edimburgo Fringe Festival 2017
Foto: Edimburgo Fringe Festival 2017
Foto: Edimburgo Fringe Festival 2017

Ce n’è tanto per bambini. Per chi vuole approfondire le tematiche del momento. Per chi vuole ridere a crepapelle con stand up e sit com. Per gli stranieri di ogni nazionalità. Per chi non ama la parola e preferisce il gesto. Insomma, non c’è un palato che il Festival di Edimburgo non riesca a soddisfare. E d’altra parte i numeri sono impressionanti, sembra davvero un miracolo che per tre settimane di agosto ogni anno questa tranquilla cittadina della Scozia si trasformi in un immenso contenitore teatrale e che, pur convivendo con altre manifestazioni culturali quali il libro, la musica classica o la stagione “in”, anch’essa ricca di proposte,  il Teatro OFF sia l’assoluto, festante protagonista.

Una volta per tutte (ho spesso raccolto osservazioni reticenti sul concetto di “Off”, soprattutto da italiani tanto scettici quanto finanziati…(!) ), Fringe, oppure OFF (come dicono i Francesi che non amano condividere i termini anglosassoni), nasce come teatro della marginalità, ovvero teatro non inserito nei circuiti tradizionali, non finanziato da strutture pubbliche e non gratificato dai critici dell’elite giornalistica internazionale. I Fringe e gli OFF nascono così: poi, si sa, il tempo fa lievitare i numeri, e dopo 70 anni – tanti ne ha festeggiati in questa edizione l’ED Fringe, che vide i natali appunto nel 1947 –  i confini tra IN e OFF diventano più evanescenti, anche se l’esistenza di una rete mondiale di Fringe (da Adelaide in Australia a Praga ) vorrà pur significare qualcosa.
Qui ad Edimburgo le venues, ovvero gli spazi, possono essere stanze ricavate da appartamenti,  salettine di alberghi, bar e pub, caffetterie, scuole, club, etc.,  ma anche multisala teatrali da centinaia di posti, corredate da punti ristoro, angoli per scrivere, leggere o concentrarsi su cosa vedere. Spesso ci si ritrova seduti con il librone degli spettacoli aperto e l’espressione un filo inebetita:  perché, comprenderete, la possibilità di sentirsi confusi è molto alta.
Ovviamente, le multisala – anch’esse spesso divise in più venues – consentono scelte più facili e concentrate, avendo anche spettacoli più selezionati.
Assolutamente in pole position nel settore troneggiano Assembly, Summerhall e Pleasance. Ma una venue di tendenza per la drammaturgia contemporanea è anche Travers. Entrando nei press Offices delle venues è bello vedere al lavoro decine e decine di giovani, che hanno il compito di interfacciarsi tra le compagnie e i reviewers.

Di certo, però, se le mega strutture fanno sentire il neofita più sicuro, vale anche la pena di andare d’istinto e simpatia e visitare altri spazi. Se si è attratti da un titolo o da una proposta possono magari arrivare sorprese inattese. Le quotazioni dei critici, comunque, espresse con le fatidiche quattro o cinque stelle per gli spettacoli assolutamente consigliati, sono una fonte di orientamento per il visitatore smarrito.
Le compagnie pagano le venues per partecipare, e devono lavorare sodo per emergere. Uscire in attivo, tra ufficio stampa e promozione, spese tecniche, trasferte e alloggio è cosa rara. In ogni caso nulla viene regalato, è un lavoro duro per tutti anche se all’insegna dell’entusiasmo.
Quest’anno ho dedicato al Fringe una settimana: nulla, se si pensa che gli spettacoli sono circa 3.000. La durata media di ogni show si attesta ancora su 50 minuti – un’ora, salvo rare eccezioni. Sicché se proprio si vuole fare un’abbOffata pesante, è possibile vedere anche 6-7 spettacoli al giorno.
Senza parlare poi degli spettacoli da strada: lì troverete i migliori artisti a livello mondiale, che guadagnano a cappello e stupiscono con prodezze impensabili. Tanto gaudio per le famiglie con bambini.
Ma adesso entriamo nel vivo degli spettacoli che abbiamo visto, menzionando soltanto gli spettacoli ai quali, adeguandoci al metodo inglese, conferiremmo senz’altro 4 o 5 stelle.

A Pleasance, in uno spazio continuamente gremito, abbiamo assistito ad una bellissima performance di 12 danzatori -atleti – mimi intitolata “Requiem for Aleppo”: da un’idea di David Cazalet e con l’accorta guida del coreografo Jason Mabana, è un percorso molto toccante che invoca pace e appunto requiem per i territori devastati, mescolando racconti di storie vissute all’uso del gesto ripetuto e del movimento coreografico che ci ha ricordato la prima Pina Bausch.
Sempre a Pleasance, ma in un’altra location, abbiamo visto un gioiello di simpatia e bravura, TUTU: Sei danzatori acrobati, inizialmente vestiti con un TUTU fatto a strati che li rende raffinatamente stravaganti, si esprimono in una serie di numeri tanto divertenti quanto di grande bravura. Lunghe code agli ingressi garantite, ma l’organizzazione edimburghese è fantastica, sicché state certi che anche gli eventi più complessi ed i pubblici più numerosi si trovano seduti in orario e gli spettacoli molto raramente sforano. Simpatia e bravura insieme, è un mix che sa di spettacolo di intrattenimento destinato ad un pubblico internazionale .

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Ancora sul teatro gestuale, dobbiamo citare una produzione argentina dal titolo “Un Pollo Rojo”. Luciano Rosso e Alfonso Baron sono due giovani carini e gentili. Li conosci personalmente e vieni attratto dalla loro gentilezza e modestia. Ma sul palcoscenico si trasformano, direi anzi si trasfigurano e giganteggiano. Sulla scena ingaggiano un corteggiamento esilarante e pieno di trovate, con un uso del corpo e della mimica da talenti rari.  Alla fine di ogni performance, puntualmente travolti da ovazioni, Alfonso spiega con naturalezza : “è una storia gay, quella che raccontiamo, e siccome questa è una domanda ricorrente rispondo che non siamo fidanzati, ma Luciano è solo un collega e  caro amico.  E la musica della radio che ci vede continuamente litigare e cambiare canale alla ricerca di ispirazioni è veramente casuale”: per cui ogni giorno lo spettacolo regala un esilarante margine temporale di venti minuti di pura improvvisazione.
Terminiamo con il teatro fisico menzionando  “Together Alone”,  una produzione di Taiwan che ha mietuto stelle da parte della critica più accreditata. Un percorso in cui i due danzatori, nudi, ma sempre in qualche modo legati l’uno all’altro, vivono le fasi della relazione di coppia.

Ci spostiamo adesso ai classici per segnalare la bravura ed originalità di  Emily Carding in un  “Riccardo III” nato durante una residenza teatrale a Reykjavik , che ha mietuto successi e premi allo scorso Fringe di Praga.  Emily veste una mise androgina di grande semplicità ed al tempo stesso, grazie al carisma che ha in dono, tiene al guinzaglio l’attenzione degli attivi spettatori, i quali sono chiamati ad interagire nella storia impersonando tutti i personaggi della piece shakespeariana.
Ancora, una sorpresa ci è stata riservata, in una sala d’albergo, da una lettura efficace della vita di Caravaggio. La commedia dall’omonimo titolo, scritta e diretta da Thomas Butler per la Compagnia Theatre Department, si fa apprezzare per la selezione ed efficacia  narrativa e per l’attenzione ai dettagli in una piece senza sbavature.

Rimanendo sul classico, non si può rimanere indifferenti di fronte alla camaleontica abilità di George Man nell’Odyssey prodotta dal Theatre ad Infinitum di Bristol, andata in scena al Pleasance Dome. In scena un corpo ed una voce sono tutto e le parti del tutto. Lo spettatore vive le peripezie di Ulisse e si rende conto di non aver bisogno di artifici, di scenografie, di nulla. All’idea ed all’attore la critica ha tributato punteggi massimi, che condividiamo.
E gli italiani? – ci chiederete. Si difendono egregiamente.  Numerose le proposte: noi abbiamo visto “The Principle of Uncertainy”, traduzione della piece italiana “Il principio dell’incertezza” di Andrea Brunello adattata e diretta da Stefania Bochicchio, incentrata su una lezione di fisica quantistica in cui il ricordo di una tragedia che ha colpito il/la protagonista prende il sopravvento, con un’emozionale-emozionante Abi McLoughlin .

E poi Echoes, produzione italiana con Marco Quaglia e Stefano Patti, bravissimi interpreti di una storia di distruzione di massa orchestrata da un ermetico, misterioso personaggio che si trova a confronto con un giornalista di ideologia opposta. Anche se il testo andrebbe ancora ottimizzato in alcune parti, la tensione rimane alta durante tutto lo spettacolo grazie agli attori, che meritano un plauso massimo.
Venendo alle proposte legate a tematiche contemporanee, “Borders”, spettacolo dell’acclamato Henry Nailor, autore ormai di casa nell’ OFF Broadway ed i cui testi vantano un costante tutto esaurito, ha esaltato il pubblico del Gilded Balloon (altre enorme e prestigiosa venue) con l’intreccio di due monologhi in cui il mestiere di fotografo filtra con efficacia narrativa i reportage di guerra.
A Summerhall abbiamo visto How to Act, che racconta di un rinomato direttore di teatro che conduce una masterclass e finisce per coinvolgere talmente l’aspirante attrice iscritta da provocare un ribaltamento delle parti, e “Love+”, storia di un robot tuttofare al servizio di una ragazza normale.  La relazione tra uomo e robot è affrontata con toni da commedia ma con significati profondi. Può un robot sostituire il bisogno di essere protetti, curati, in una parola amati?

La robotica ed il futuro sono molto presenti in questa edizione del Festival, per cui tra i vari spettacoli segnaliamo anche “Siri”. E’ una produzione canadese – il Canada ha un suo spazio dedicato, connesso a Summerhall. L’attrice, Laurence Douphinais, che ci racconta essere nata da inseminazione artificiale, ci rimanda alle connessione tra reale e virtuale, ai suoi rischi ma anche ai misteri e possibilità ancora da esplorare.
Chiudiamo la carrellata sull’attualità, stavolta rivolta al sociale, con “Jane Doe”, ospite del nutrito programma di Assembly: è un intelligente ed efficace spettacolo in cui cronaca, sondaggi dal vivo e coinvolgimento del pubblico si intrecciano per raccontare  un fenomeno dei nostri tempi molto preoccupante perché universalmente diffuso. L’adolescente Jane Doe partecipa ad una festa. Beve e si ubriaca. Viene rapita da coetanei e abusata. Tutti finiscono per fare i conti con la Giustizia. La compagnia viene dalla Nuova Zelanda, che ha portato ben otto produzioni per  questo Fringe.
Per finire, al fine di spaziare nella molteplicità delle proposte, siamo anche andati a vedere uno spettacolo di Flamenco, certi che “Alba Flamenca”, location specializzata, ci avrebbe riservato il massimo livello. E così è stato. Spettacolo da brivido.

Per concludere, siamo consapevoli che la nostra carrellata non rappresenta che una briciola di un sontuoso banchetto. Ma ci auguriamo che possa essere per il lettore un campione illustrativo di questo mitico Festival, congegno mirabilmente, incredibilmente orchestrato da una Fringe Society cui va un’incondizionata ammirazione per avere individuato, già 70 anni fa, obiettivi e strategie perfettamente centrati.