Gianni Berengo Gardin è da molti considerato “il Fotografo italiano”, una figura preminente nel panorama della fotografia e della cultura nazionale. Conoscerlo dal vivo è un’esperienza emozionante, alla quale contribuisce la piacevole sensazione di incontrare una persona gentile e disponibile, che mi accoglie nella sua casa-studio e si apre con semplicità ad ascoltare le mie domande sul suo lungo e prezioso percorso umano e professionale.
La sua fotografia, che è rimasta sempre fedele alla pellicola e al bianco e nero, sembra essere sempre (in) movimento, perchè racchiude l’incessante trasmutarsi della vita, che parli di persone, architettura, o paesaggi.
Ascoltarlo è un’alta lezione di fotografia e di ascolto. Visivo, e non solo.
In cosa si distingue la “voce” della fotografia, rispetto ad altri mezzi espressivi?
Gianni Berengo Gardin: La voce della fotografia è immediata. Dipende dalla sensibilità del fotografo. Alcune hanno significato immediato, altre meno. Deve essere sempre accompagnata da poche parole: luogo, data (cambia molto il momento in cui è stata scattata la fotografia), e qualche notizia per renderla più comprensibile.
In cosa risiede a livello profondo il legame fra fotografia e scrittura?
G.B.G.: Il legame fra scrittura e fotografia esiste, è reale. Per un fotografo è indispensabile avere una vasta cultura (musica, pittura, letteratura): ho più suggerimenti dallo scritto che dalla pittura. Anni fa, quando sono andato in America, conoscevo già prima attraverso i libri di Steinbeck, Hemingway, Faulkner, Dos Passos, ciò che poi ho visto: ero già preparato a vedere certe cose, sono stato avvantaggiato nella visione.
La fotografia può essere considerata una forma di scrittura?
G.B.G.: La fotografia è un altro modo di scrivere.
Quale ruolo gioca l’inconscio in uno scatto fotografico, e quindi nel “brano di realtà” che viene presentato al mondo esterno? E quanto il conscio?
G.B.G.: L’inconscio non so quanto sia significativo: quando io fotografo qualcosa so bene cosa voglio fotografare, dimostrare, raccontare. L’inconscio secondo me è relativo.
Le sue fotografie sono tutte più o meno contestualizzate, ma al tempo stesso alcune rimandano alla sensazione di un “non tempo” e un “non luogo”: è consapevole di questo, e come lo spiegherebbe?
G.B.G.: Dipende chi legge la fotografia: se ha la mia stessa cultura riusciamo a capirci, se ha una cultura inferiore o superiore, qualche volta non riesce a capire. Bisogna essere più o meno sullo stesso parallelo, perché vedo che apprezza certe mie fotografie chi ha la mia stessa cultura: un cinese non legge allo stesso modo di un europeo le mie fotografie, e così chi ha una cultura superiore le “snobba” un po’, perché non riesce a capire con la sua cultura cosa volevo raccontare. Io non sono un artista, non mi interessa passare per artista, e non faccio foto d’arte: faccio foto che spero siano comprensibili, perché sono semplici, racconto qualcosa. Non sono un artista, ripeto, ma sono un testimone della mia epoca, e quindi il tipo di fotografia che faccio è abbastanza semplice, chiaro, racconto ciò che ho visto io, senza tanti intellettualismi, che cerco di non mettere nelle mie fotografie.
Cosa fa la differenza fra un luogo o una situazione che meritano uno scatto, e altri ai quali “manca qualcosa”?
G.B.G.: Il mio amico Joseph Koudelka e anche Salgado dicono che nelle fotografie “deve succedere sempre qualcosa”. Il mio amico, Ugo Mulas, il grandissimo fotografo italiano, una volta mi ha spiegato che differenza c’è fra “una bella fotografia e una buona fotografia”: una “bella” fotografia racconta formalmente qualcosa, ma non ha un contenuto forte, la “buona” fotografia invece ha un contenuto forte, racconta delle cose, e quindi è molto più interessante. Una bella fotografia può essere un tramonto, un paesaggio, qualcosa che interessa a pochi; una buona fotografia è un avvenimento o una situazione, che racconta o denuncia qualcosa.
Cosa sono per lei “cultura” e “arte”? Arte e cultura migliorano la qualità della vita? Possono guarire?
G.B.G.: Una domanda difficilissima! L’arte dei fotografi non mi interessa assolutamente, la cultura dei fotografi mi interessa di più. In genere mi interessa l’arte, ma quella dei grandi pittori, musicisti, artisti: non quando uno fa quattro scarabocchi, e dice di essere un artista. Mi interessa di più la cultura, perchè abbraccia tutto: la pittura, la fotografia, la musica. E quindi più un fotografo ha cultura, meglio è.
In cosa consiste la “funzione sociale” dell’arte? E della fotografia nello specifico?
G.B.G.: Per l’arte non lo so. Nella fotografiasociale è importantissima, forse anche più della documentazione. Ho fatto tante cose sociali, ma anche non sociali, che però tutto sommato però diventano “sociali”: generalmente quando si parla di sociale si pensa ai “poveri morti di fame”. Invece tutto è sociale: quando io fotografo la piccola borghesia, i ricchi, i nobili, è fotografia sociale anche quella, perché parla della società che viviamo. Non mi interessa l’arte nel sociale, ma il sociale in se stesso. Ho fatto tantissimi lavori sociali, con Basaglia l’indagine sui manicomi per l’abrogazione della legge 180, con Cesare Zavattini la descrizione del suo paese, ho vissuto con gli zingari un mese e mezzo a Firenze, e poi a Palermo, Padova e Bolzano, cercando di raccontarli: sono tutti lavori sociali importanti, poi ce ne sono altri meno importanti, come il libro che ho fatto con Luciano d’Alessandri sulle case degli italiani: basandoci sulle statistiche Istat abbiamo fotografato le case degli italiani con il personaggio che ci abitava, in proporzione alle classi sociali che ci sono in Italia, suggerite dalle statistiche. Abbiamo cominciato con il sottoproletariato, poi il proletariato, la piccola borghesia, la grande borghesia, per finire con i principi di Torlonia. E’ un lavoro meno importante degli altri, ma sempre importante. È difficile da trovare, si trova ormai solo in internet a prezzi altissimi.
Potremmo quindi sintetizzare usando una parola un po’ abusata, quella di “umanità”…
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G.B.G.: Infatti i francesi la chiamano “fotografia umanitaria”.
Il suo uso del bianco e nero permette, secondo le sue parole, di “vedere meglio”: mi potrebbe parlare della sua predilezione per il bianco e nero rispetto al colore?
G.B.G.: Il bianco e nero lo trovo più grafico, più efficace per il mio tipo di fotografia. Ci sono anche fotografi a colori bravissimi. Io amo il b/n perché concretizza le cose, e poi perché sono nato con il cinema e la televisione in b/n; sono un grande appassionato di cinema francese 35/45, 30/45, e quindi la mia cultura è di b/n. Ho succhiato latte in bianco e nero fin da piccolo. Tutti i miei maestri erano fotografi di bianco e nero, e io mi sono ispirato a loro, ho imparato da loro. Anche fotografi moderni come Koudelka e Salgado prediligono il bianco e nero.
C’è qualcosa secondo lei che oltre al b/n permetta di “acuire” la visione?
G.B.G.: Direi di no. Il colore distrae sempre chi lo guarda. A parte il fatto che i colori, sia in pellicola che in digitale, non sono mai reali. Sono forzati. Mentre il bianco e nero è sempre reale. Il colore distrae perché si guarda più il colore nella fotografia che il contenuto.
In cosa consiste la diversa natura fra un percorso fotografico in analogico e uno in digitale?
G.B.G.: Io sono un “talebano”, un integralista della fotografia in bianco e nero e su pellicola. Il digitale ha solo due vantaggi: per alcuni professionisti, che fatta una foto la possono inviare immediatamente a New York , a NuovaDelhi, dove vogliono, e questo a me non interessa. E poi il vantaggio di poter cambiare gli iso. Il vero, l’unico vantaggio. Poi secondo me il digitale è piatto, freddo, metallico. La pellicola è meno incisa del digitale, però è più plastica, e quindi per me dà più soddisfazione. Il pericolo del digitale è che fra 5/10 dieci anni cambieranno i mezzi di lettura, e tutto quello che è fatto si butta. Mentre con la pellicola io ho un archivio di 1.500.000 fotografie che rimarranno sempre. Io lavoro soprattutto per l’archivio, e quindi preferisco la pellicola. Poi i fotografi digitali appena fatta la foto la guardano subito, e perdono il secondo, terzo scatto, che è il più importante. E poi quando c’è molto freddo le batterie si scaricano subito…. insomma ha molti difetti, è una moda soprattutto italiana. In Italia lo usa l’82% dei fotografi,in Francia solo il 40 %. In Francia, Germania, America si usa molto meno il digitale, soprattutto in America c’è un ritorno alla pellicola, come è successo con la musica, con i vinili e i cd.
Quindi si riferisce anche alla Polaroid?
G.B.G.: La polaroid non mi ha mai interessato, non l’ho mai usata, quindi non saprei cosa dire.
Quali consigli darebbe a chi oggi volesse accostarsi alla fotografia di reportage?
G.B.G.: Oggi è un grosso problema, perché una volta il mezzo tecnico era una barriera difficile. Ormai le macchine fotografiche fanno tutto: il dramma è che la macchina pensa per te, ti abitua, ti vizia e non pensi più con la tua testa. Tutti sono fotografi con i telefonini, e questo è un male. Come tutte le rivoluzioni, il digitale ha fatto bene e male. Ormai si fotografa male, e purtroppo i giornali accettano le foto brutte, perché non le pagano niente, e i dilettanti pur di vedersi pubblicata una fotografia la danno gratis, e quindi il mestiere del fotografo è in rovina, in questo momento. Io ho la fortuna di aver iniziato mezzo secolo fa, e ho coseche non si possono più fotografare; l’archivio è importante, per quello, perché cambiano i tempi e cambia tutto, e quindi è un altro modo di vivere la fotografia. La facilità del mezzo produce più guai che cose positive.
Ci potrebbero però essere dei passi importanti, per chi sia interessato alla strada della fotografia?
G.B.G.: La cosa importante in fotografia è comprare tanti libri di grandi fotografi, e cercare di capire perché hanno fotografato in quel modo quelle cose. Non basta la cultura generale, bisogna avere una cultura specifica fotografica, che tanti non hanno. I dilettanti fotografano e si guardano, amano le loro foto, non la fotografia. Guardano le loro foto, e non si interessano a quella che è la cultura e la fotografia degli altri. Una volta prima di riuscire a fare una buona foto passavano anni. Adesso la fotografia tecnicamente viene subito, perché è la macchina, e non l’uomo che sta dietro a farla, e quindi ci si accontenta: perché devo studiare, tanto la foto viene subito. E non capiscono che è importante avere una cultura specifica fotografica; è come se io fossi un suonatore e non sapessi chi è Beethoven: vivo nel buio.
Quindi, una cultura specifica fotografica, e poi esercitarsi con l’analogica…
G.B.G.: Tanti iniziano con il digitale, poi viene la curiosità di provare la pellicola. La gente vuole sperimentare, capire da dove nasce la fotografia, qual è il dna della fotografia. Io poi sono un nemico del Photoshop. Anche una volta si facevano i trucchi: sappiamo che Stalin toglieva Lenin o Trotski se gli faceva comodo, ma succedeva una volta su un milione, ora succede l’inverso: milioni di fotografie sono taroccate. Quindi non si sa più se si vede una foto o qualcosa creato con il computer.
Si potrebbe dire che sia più grafica che fotografia…
G.B.G.: Io la chiamo pittura, perché vogliono imitare la pittura, non solo ma ormai tutti i paesaggi hanno cieli tempestosi, poi si levano le rughe alle donne, che secondo me è un atto di taroccamento incivile… se le abbiamo le rughe, teniamole. Diventa un’altra cosa, non è più fotografia, ma immagine, e c’è una grande differenza: anche un disegno è immagine, e quindi le fotografie taroccate con photoshop si avvicinano più ai disegni, che alla fotografia vera e propria.
Forse il digitale potrebbe essere utile all’inizio, per imparare?
G.B.G.: Secondo me non si impara con il digitale, è troppo facile e passa la voglia di imparare. La curiosità e la passione sono ciò che fa una buona fotografia.