Foto: Divertimento Ensemble © Andrea Avezzù
Foto: Divertimento Ensemble © Andrea Avezzù
Foto: Divertimento Ensemble © Andrea Avezzù

In una Venezia magica e insolitamente agibile al tempo del Covid, si è svolto il 64° Festival Internazionale di Musica Contemporanea

Il sole ha spesso brillato fra le calli e un propizio debutto del Mose ha tenuto all’asciutto i piedi dei viandanti. In dieci giorni 18 appuntamenti, fra cui 15 prime assolute – 7 commissionate dalle Biennale – e 13 prime nazionali. Con il titolo Incontri si è reso omaggio ai grandi della musica del recente passato, in dialogo con autori della più stringente contemporaneità. Gli anniversari quest’anno non mancavano: Bruno Maderna, Luigi Nono, Franco Donatoni, Ludwig van Beethoven.

«Fra cento anni si parlerà di Bruno Maderna come di un grande compositore che faceva pure il direttore d’orchestra», scriveva profeticamente Massimo Mila. Infatti nel centenario della nascita (1920-1973) si moltiplicano le celebrazioni del Maestro veneziano. Nella vastità dei suoi orizzonti, un intero capitolo è rappresentato dalle musiche per i documentari televisivi e per il cinema, con incursioni in generi come il jazz, l’operetta, il cabaret di Kurt Weill: Maderna dirigerà la prima edizione strehleriana dell’Opera da tre soldi, con Giacomo Manzoni al pianoforte.

Della varietà dei suoi interessi racconta Sette Canzoni per Bruno, con il FontanaMIXensemble el’In Nova Fert ensemble che propongono un «concerto-documentario fatto di frammenti, schizzi, quadrati magici dell’opera di Maderna, tratti anche dalle trascrizioni di autori del passato e della produzione più leggera, che insieme formano un racconto musicale fortemente impregnato del suo modo di far musica e della sua tenacia a indagare sempre nel nuovo».

Il Leone d’Oro alla carriera è andato a Luis de Pablo (1930), compositore originalissimo il cui catalogo supera le 200 opere. Il 25/9 si è tenuta al Teatro alle Tese la prima assoluta del suo Concierto para viola y orquesta, con il violista Garth Knox, già membro dell’Ensemble Intercontemporain e dell’Arditti String Quartet, nonché la novità italiana Fantasías per chitarra e orchestra, con il chitarrista Thierry Mercier e l’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Marco Angius.
Il Leone d’Argento ha premiato invece il lavoro del francese Raphaël Cendo (1975), iniziatore d’un movimento chiamato “saturazionismo”.

«Tutti i Festival di Musica Contemporanea che ho curato dal 2012 a oggi» dice il direttore artistico Ivan Fedele «non avevano né l’obbiettivo né tantomeno la pretesa di essere un’indagine esaustiva sulla musica contemporanea, e questo per ovvie ragioni di tempo e di spazio, come pure per ragioni inerenti all’estrema varietà degli orientamenti estetici e mobilità degli attori interessati, e alla molteplicità dei generi a cui, peraltro, abbiamo recentemente cercato di dare uno spazio coerente negli ultimi anni».
Dei fili rossi che hanno guidato i palinsesti di quasi un decennio Fedele parla nell’intervista che ha concesso a PLM.

A Luigi Nono (1924-1990), allievo di Maderna e come lui veneziano, la Biennale dedica un concerto nel trentennale della morte: tre brani dell’ultima stagione creativa, in cui s’intensifica la ricerca d’una nuova idea di suono e di spazio grazie alla frequentazione dello studio di Freiburg negli anni ’80, dove sperimenta tecniche di trasformazione dal vivo dei suoni. L’elemento che caratterizza questi brani è, oltre all’elettronica, la figura dell’interprete partecipe del processo creativo, sempre più centrale nella musica del secondo ‘900. Così è per Post-prae-ludium n. 1 per Donau e per La Lontananza Nostalgica Utopica Futura, brani che Nono scrisse sollecitato dallo sperimentalismo del grande suonatore di tuba Giancarlo Schiaffini e del violinista Gidon Kremer. A Venezia è stato il giovanissimo Arcangelo Fiorello ad affrontare il brano per tuba ed elettronica, mentre il violino di Francesco D’Orazio ha interagito con gli otto nastri magnetici di La Lontananza. Un classico noniano del ’76 per pianoforte e nastro magnetico dedicato a Maurizio e Marilisa Pollini – …sofferte onde serene… – interpretato da Francesco Prode, ha chiuso il programma.

Foto: da sin. Ruggero Laganà, Ivan Fedele, Sandro Gorli © Andrea Avezzù
Foto: da sin. Ruggero Laganà, Ivan Fedele, Sandro Gorli © Andrea Avezzù

Notevolmente influenzato da Maderna anche Franco Donatoni (1927-2000), giunto alla composizione relativamente tardi per divenire uno dei massimi autori del secondo ‘900. Nel ventennale della morte è Sandro Gorli, fondatore e direttore dello storico Divertimento Ensemble, a dirigere qui un concerto-omaggio: con ArpègeSpiriHot, brani che appartengono alla fase più fertile e libera di Donatoni che lui stesso definì “esercizio ludico dell’invenzione”, in programma con due novità assolute rispettivamente di Gorli e di Ruggero Laganà, entrambi allievi del Maestro veronese.
Del suo lavoro Il blu del tuono Gorli dice: «prende forma dal ricordo delle lunghe conversazioni con Franco e dallo studio delle numerose sue partiture che ho potuto dirigere; potrei dire che la scrittura del pezzo sia stata per me quasi come una lunga ulteriore conversazione con lui».
Souvenirs di Laganà, che rimanda alla Kammersimphonie Souvenir di Donatoni, è un pezzo in cui gli echi e i procedimenti compositivi donatoniani si rincorrono, si irradiano e si trasformano a partire dalle tre sue composizioni eseguite nel concerto. Un brano suggellato, scrive l’autore «da una lontana, velata citazione de La biondina in gondoleta, famosa canzone di battello veneziana che Donatoni utilizzò nel suo capolavoro/dedica/ricordo Duo pour Bruno nel 1975, in memoria di Maderna».
Gorli ha dedicato il concerto a Mario Messinis, il grande critico, saggista e intellettuale morto quest’anno e grande amico di Donatoni.
L’attività del Biennale College Musica – progetto dedicato alla formazione dei giovani nei settori artistici e nelle attività proprie della struttura organizzativa della Biennale – ha poi sostenuto la produzione di quattro composizioni originali per strumento solo, live electronics e video in tempo reale, prodotti da quattro team di compositori e video artisti al di sotto dei 35 anni.
A Venezia, l’obbligo di mascherina durante i concerti si può anche accogliere come un anticipo del carnevale, augurandosi che passi presto e senza troppi danni.
Il M° Ivan Fedele, Direttore artistico di Biennale Musica, ha risposto con grande disponibilità ad alcune nostre domande.

INTERVISTA A IVAN FEDELE

Foto: M.° Ivan Fedele © Francesco Rampichini
Foto: M.° Ivan Fedele © Francesco Rampichini

Compositore e didatta di fama internazionale, nominato nel 2000 dal Ministro della Cultura Francese “Chevalier de l’Ordre des Lettres et des Arts”, membro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma presso la quale nel 2007 il Ministero della Cultura Italiano gli ha assegnato la Cattedra di Composizione nell’ambito dei Corsi di Perfezionamento in Studi Musicali. Nominato direttore artistico del Settore Musica per il quinquiennio 2012-2016, l’incarico gli è stato riconfermato fino alla presente edizione. Nel 2016 la Fondation de France gli ha conferito il Prix International “Arthur Honegger” per l’insieme della sua opera.

Dalle solide radici di Bruno Maderna germoglia il grande albero che, passando per Nono e Donatoni, porta a Gorli e Laganà, per non citare che i presenti a questa Biennale. Qual è oggi l’eredità più rilevante del Maestro veneziano e quanto la sua lezione influenza ancora, sul piano tecnico e concettuale, la musica dei giovani compositori?

Certo, direi che i lasciti sono due, anzi tre. Uno di tipo umano, uno di tipo culturale generale e un altro di tipo più strettamente musicale. Da un punto di vista umano il lascito è quello che tutti conosciamo, cioè che Maderna era un grande sostenitore dei giovani talenti. Li sosteneva in vario modo, uno di questi era di occuparsi delle loro musiche, naturalmente di coloro che avevano talento, nei quali credeva. Ad esempio Gorli se non sbaglio fu vicino anche a Maderna, che supportò la sua attività quand’era ancora molto giovane. Questo era molto importante in un periodo in cui sappiamo che il compositore rifuggiva un poco l’aspetto pedagogico, no? Era molto concentrato sul proprio lavoro, che inquadrava all’interno d’un movimento in grande fermento. Il secondo è di tipo culturale in generale, sotto il profilo musicale naturalmente. Maderna, come peraltro Berio, era molto aperto a tutti i generi musicali, anche se l’aspetto della sperimentazione e della ricerca era l’aspetto principale della sua attività di compositore, come dimostra il suo fondamentale coinvolgimento nello studio di fonologia della Rai di Milano. Quindi è una figura di compositore molto particolare rispetto a coloro che lui aveva frequentato e frequentava – provenienti dalla cosiddetta scuola di Darmstadt – non dico unica perché ho già citato Berio, ma certamente non così consueta. Dal punto di vista compositivo invece la figura di Maderna è molto interessante, perché affonda le radici nella storia della musica e queste radici si nutrono degli archetipi, però nella partitura si manifestano in una maniera assolutamente nuova e geniale. È un compositore che rispetto a tanti altri ha utilizzato l’idea di melodia in senso lato, in una maniera molto interessante. Il concetto di melodia che invece, come lei ben sa, i compositori della grande rivoluzione degli anni ‘50 rifuggivano, perché lo consideravano un retaggio d’una musica del passato, che andava superato assolutamente. Ecco, per quanto riguarda le giovani generazioni io penso che non conoscano sufficientemente Maderna, il quale viene eseguito raramente, molto meno a mio avviso di quanto la sua musica meriterebbe. Quindi, se non lo si ascolta, pian piano si perde il contatto con quell’esperienza, con quel punto di vista e poi risulta difficile orientarsi, riconnettersi.

Che peso avranno sulle musiche del futuro alcune tendenze moderne (nel senso della moda) che ibridano i linguaggi di giovani compositori con materiali e mezzi considerati dalle generazioni precedenti armamentari pop? Penso ai performer, alle “creature sonoro-visive” citate in Biennale. L’impostazione culturale della musica contemporanea di matrice storica sembra lasciarsi invadere da metodi e cliché alieni, apparentemente più leggeri, lontani dalla pregnanza – per riferirsi a correnti storicizzate – di uno spettralismo. Potrebbero favorire l’avvicinamento di un pubblico meno specializzato?

Mah, diciamo che oggi viviamo in un’epoca in cui il visual è un elemento fondamentale in tutti gli aspetti della nostra vita. Leggiamo sempre meno, guardiamo e ascoltiamo sempre di più, quindi ci sono anche tante modalità artistiche di comunicare attraverso l’immagine. Penso che il visual sia sicuramente una dimensione nella quale la musica sposi il visivo e con esso si coniughi. Può questo allontanare dalla cosiddetta musica assoluta? Direi di no, perché la musica assoluta resta sempre la stessa, cioè un ascolto semplice, tra virgolette, di una composizione, resta comunque. Come anche eseguire la musica senza altri supporti o altri media resta comunque una dimensione archetipica e privilegiata.

E quindi li considera due capitoli distinti?

Sì, le considero due possibilità, ecco. Poi diciamo che rispetto al passato, le giovani generazioni che si applicano alla cosiddetta musica di scrittura hanno una visione un pochino più disincantata, rispetto a influenze da altri generi. La qual cosa non è assolutamente nuova, perché se pensiamo a Debussy, ma anche a Ravel, furono molto influenzati dal jazz o comunque da forme di popular music o dance music dell’epoca, che introdussero all’interno delle loro composizioni. Naturalmente coniugandole, non semplicemente come citazioni o come espedienti, come gadget. Il problema della superficialità è un problema dell’uso che fai del materiale. Puoi usare superficialmente anche un materiale spettrale. Quindi non credo che questo dipenda dall’origine degli eventuali altri materiali, considerati magari dagli accademici eterodossi, all’interno di una composizione che abbia ambizioni anche di scrittura.

Con scelta felice avete assegnato il Leone d’oro alla carriera a Luis de Pablo, in un certo senso un outsider, un autodidatta ed uno dei più singolari compositori del nostro tempo. Avendo frequentato i suoi seminari ricordo che l’approccio all’analisi, l’impianto poetico e pragmatico dei suoi lavori, muovevano da una weltanschauung con un’impronta socio-filosofica importante. Qual è a suo avviso il nucleo fondante dell’attività di un docente di composizione oggi? C’è un’esigenza di trasformazione da poter indicare alle scuole di composizione dei conservatori italiani ed europei?

Sì, allora diciamo che per quanto riguarda de Pablo la parola che ha usato per descriverlo – outsider – è assolutamente centrata, azzeccata. È la stessa parola che possiamo usare nei confronti di Ligeti, che è stato un grandissimo compositore senza passare attraverso quella temperie – che forgiò sia Stockhausen sia Boulez, sia gli stessi Berio e Maderna – di Darmstadt. Quindi è evidente che ci sono altre strade per affermare una propria personalità. Ma poi la parola outsider contiene in sé il rifiuto, come posso dire, di aderire al mainstream del momento – e ce ne sono stati tanti – non volendo far propria una sorta di koinè diffusa del linguaggio musicale ma cercandone uno proprio, che però si radicava nell’esperienza del tempo. Ecco, questa è la cifra a mio avviso più importante del compositore. Perché non dimentichiamoci che all’epoca, quando lui era giovane (de Pablo, ndr.), ma anche più maturo, era una scelta molto difficile. Era una scelta non inclusiva, ma esclusiva. In qualche modo lo escludeva da quel grande fiume del mainstream post serialista che invece sembrava voler dettare i canoni del comporre universale.

Per quanto riguarda le scuole di composizione diciamo che hanno in qualche modo la tendenza a reiterare il concetto di accademia. Prima era un’accademia degli stili del passato, per cui si insegnava quasi esclusivamente la riproduzione dei modelli classici, romantici, post-romantici come il core, la parte centrale appunto dell’apprendimento – che è fondamentale intendiamoci, che bisogna conoscere, non puoi costruire un grattacielo dal decimo piano. Ripeto, affondare le radici nella storia della musica, la consapevolezza di tutto ciò che c’è stato dietro è a mio avviso fondamentale, non si può bypassare tutta l’esperienza precedente. Però spesso ci si limita a questo, e comunque grandi maestri, nel caso della composizione, vedo con difficoltà che possano essere compositori non poi veramente attivi in maniera significativa all’interno del mondo produttivo, e non solo in quello pedagogico. Mi risulta difficile immaginare questo. La mia esperienza personale, che comunque è un’esperienza pedagogica di quarant’anni, mi dice che raramente sono usciti, se non per merito soprattutto del proprio talento e anche di un’attività quasi autodidattica, giovani compositori che poi si sono affermati per la loro personalità, da classi tenute magari anche da ottimi maestri di stampo accademico che però non li hanno supportati e, come posso dire, indirizzati anche attraverso una ricerca del sé nel linguaggio. Non so se mi sono spiegato.

Sì. Ricordo che anni fa Luigi Pestalozza pubblicò un manuale di storia della musica che cominciava a rovescio, cioè anziché partire da Greci e Romani apriva dalla contemporaneità e risaliva le correnti. Potrebbe essere questo uno schema vincente?

Mah, non lo so se questo può essere uno schema vincente, certamente i docenti devono avere la consapevolezza delle radici e delle ragioni storiche, laddove ci fossero, dei linguaggi contemporanei. Anche lì sembrerebbe il desiderio utopico – ma perché no, lasciamo pure spazio alle utopie, è importante – di costruire un grattacielo questa volta dal tetto… Nel senso che non dico che sia indispensabile, ma è fondamentale avere la consapevolezza della propria storia e magari non solo della propria storia ma anche della storia delle altre culture musicali. Ecco, una visione globale che comunque non si esaurisce nel ciclo di studi, ma che deve diventare un’attitudine quotidiana per tutta la durata della propria attività, della propria vita.

Certo, questo è molto importante. Ma passiamo ad altro, dato che l’argomento ci porterebbe lontano. Qual è stata la sua più grande soddisfazione in questi suoi anni di direzione artistica a Venezia, nel rapporto con i compositori, con la città, con il pubblico?

Allora guardi, la soddisfazione più grande mi è venuta proprio sia dal pubblico sia dai musicisti, anche da quelli che hanno fatto soltanto un passaggio, che non sono ritornati insomma, ma che mi hanno bontà loro riconosciuto, attribuito una coerenza in tutti questi anni. Un progetto che ha visto tante puntate ma che aveva delle chiare direttrici. Questo mi ha fatto molto piacere, perché poi corrisponde a quelle che erano le mie intenzioni.

Può riassumerci queste intenzioni, questi fili rossi?

Certo, il primo riguarda la vulgata per la quale la musica contemporanea suona tutta uguale. Allora, questo non sembri strano, ma appunto parlando di grande pubblico quest’opinione è abbastanza diffusa. Attraverso i Leoni d’oro e anche d’argento, oltre che i concerti, mi sembra che si sia dimostrato quanto personalità di spicco si siano affermate nel mondo della musica ed abbiano lasciato e lascino un segno tangibile attraverso linguaggi molto diversi. Penso a Boulez, Gubajdulina, Steve Reich, Sciarrino, de Pablo, e poi anche a Keith Jarret con quell’escursione nel modo del jazz che a mio avviso era doverosa, no? Per segnalare appunto una presenza importante nel campo della creatività musicale, come pure Tan Dun. Ecco, questi Leoni d’oro sono, come posso dire, testimonial di una grande varietà di approcci, di stili, nella qualità. L’altro era quello di mostrare quanto la creatività sia anche diffusa tra i giovani. Malgrado un periodo di grave contrazione delle opportunità musicali, tanti giovani si applicano alla composizione. Questo glielo posso assicurare non tanto e non solo per le proposte che da essi mi venivano, ma anche attraverso la mia attività pedagogica in masterclass tenute in tutto il mondo, dalle università americane ai conservatori d’Israele e Mosca piuttosto che di Ekaterinburg, dalle università giapponesi e coreane a quelle finlandesi, francesi ed europee naturalmente. Però io vedo un grandissimo movimento, un movimento molto consapevole anche della storia della musica recente e meno recente, dovuto anche al fatto che i giovani attraverso internet hanno accesso a informazioni che giovani di altre epoche non avevano. Per cui c’è tutto un movimento di curiosità, di ricerca, di ascolti che in passato non c’era, no? E questo è un terreno molto fertile dal quale i giovani possono prendere slancio per modellare una propria personalità, oltre che un proprio gusto. Per esempio noi anche attraverso il College abbiamo fatto un lavoro importante da questo punto di vista, che ci ha dato anche molta soddisfazione. Infine, un’apertura anche ad altri generi musicali che mi auguro che il mio successore, coloro che verranno, possano mantenere: questa curiosità che io ho avuto e che ho proposto al pubblico appunto di altri generi musicali, laddove però si potesse riscontrare anche una cifra significativa di ricerca e sperimentazione, che non è soltanto appannaggio della cosiddetta musica contemporanea colta – termine orribile – ma risiede anche in altri generi. Così come ci sono dei gruppi rock che sperimentano nuovi sound, nuove tecniche, nuovo tutto e ce ne sono altri che invece ripercorrono strade già battute, come nel jazz, nella fusion eccetera. Ecco questi sono stati i tre filoni che mi hanno decisamente influenzato nel pensare tutto quest’arco di anni come un unico progetto, in cui ogni Festival fosse una tappa.

Un’esperienza che prevede di abbandonare nelle prossime edizioni?

Più che prevedere di abbandonare il mio contratto scade alla fine di quest’anno, quindi ci sarà qualcuno che verrà al posto mio, al quale naturalmente auguro tutte le migliori fortune.

Un’ultima domanda: può dirci il titolo del suo prossimo lavoro, se sta lavorando a qualcosa di nuovo e, se previsto, dove e quando potremo ascoltarlo?

Dunque, ho scritto un concerto per organo ibrido e orchestra. Ibrido perché è un organo che ha due manuali con registri cosiddetti tradizionali e comunque anche con emissione tradizionale, quindi a canneggio, e un altro manuale invece tutto elettronico con timbri particolari. La prima si terrà nel giugno dell’anno prossimo a Angers nei Paesi della Loira, con l ‘Orchestra Filarmonica di Angers diretta da Stanislav Kochanovsky, un eccellente direttore russo, e Christian Schmitt all’organo, altro giovane e straordinario esecutore. Ecco, questo è un pezzo che ho finito da poco e che sarà eseguito prossimamente.

Il titolo di questo lavoro?

Hybrid. Poi c’è un altro pezzo che mi piace segnalare che sarà eseguito nel maggio prossimo nel trentennale del Festival Milano musica a Milano appunto, che si chiama Leaving lines ed è per quartetto d’archi ed elettronica. Questa sarà la prima italiana, la prima mondiale è stata fatta il 2 settembre all’Ircam di Parigi dove ho prodotto la parte elettronica.

Grazie Maestro, le ho rubato abbastanza tempo. Appuntamento a Milano o ad Angers, allora.

No, non mi ha rubato tempo, è stata una piacevole chiacchierata.

INTERVISTA A SANDRO GORLI

Foto: M.° Sandro Gorli © Andrea Avezzù
Foto: M.° Sandro Gorli © Andrea Avezzù

Sandro Gorli ha studiato composizione con Franco Donatoni frequentando contemporaneamente la facoltà di Architettura di Milano e diplomandosi in pianoforte. Ha svolto attività di ricerca presso lo studio di Fonologia della RAI di Milano e ha seguito i corsi di direzione d’orchestra di Hans Swarowsky a Vienna. Nel 1977 ha fondato il Divertimento Ensemble che ancora oggi dirige svolgendo un’intensa attività concertistica per la diffusione della musica contemporanea.
Al M° Gorli abbiamo posto alcune delle stesse domande rivolte a Ivan Fedele.

Dalle solide radici di Bruno Maderna germoglia il grande albero che passando per Nono e Donatoni, porta anche a Gorli e Laganà. Qual è oggi l’eredità più rilevante del Maestro veneziano e quanto la sua lezione influenza ancora, sul piano tecnico e concettuale, la musica dei giovani compositori?

Bruno Maderna alla fine degli anni ’60 è stato uno dei primi compositori che, al bivio fra Schönberg e Stravinskij, ha saputo trovare e indicare una via che mettesse insieme il rigore di Schönberg e Webern alla linea Stravinskij-Debussy. Il rigore del serialismo per Maderna era diventato una forma mentis (così diceva Maderna) che gli permetteva di gestire con coerenza la sua visionaria immaginazione. Ma rigore e immaginazione hanno sempre connotato la grande musica di ogni epoca; Maderna ribadisce una lezione che riceviamo da Gesualdo, Bach, Beethoven, Mahler, una lezione che influenzerà sempre i giovani compositori.

Avendo frequentato seminari di Donatoni nel secolo scorso, ricordo le fazioni che si formarono pro e contro le ragioni dei suoi metodi, lontani dal contemplare generiche premesse di “talento” o “creatività”. Dopo il serialismo, indeterminazione e automatismi combinatori gli procurarono non pochi oppositori. Resiste ancora o è superata oggi questa visione dicotomica?

Non sono sicuro di aver capito la domanda, ma credo che anche per Donatoni si possa dire che oggi gli automatismi combinatori del secondo Donatoni, siano da vedere come una forma mentis o, guardando da un altro punto di vista, una tecnica per liberare o fecondare la sua fantasia; credo che la dicotomia vissuta negli anni ’80 e ’90 sia ampiamente superata.

Che peso avranno sulle musiche del futuro alcune tendenze moderne (intendendo “di moda”) che ibridano i linguaggi di giovani compositori con materiali e mezzi considerati dalle generazioni precedenti armamentari pop? Penso ai performer, alle “creature sonoro-visive” citate in questa Biennale. L’impostazione culturale della musica contemporanea di matrice storica sembra lasciarsi invadere da metodi e cliché alieni, apparentemente più leggeri, lontani dalla pregnanza – per riferirsi a correnti storicizzate – di uno spettralismo. Potrebbero favorire l’avvicinamento di un pubblico meno specializzato?

Onestamente non so rispondere con sicurezza a questa domanda; i due compositori della seconda metà del ‘900 che hanno maggiormente coinvolto un pubblico diverso da quello “specializzato” sono stati Cage e Stockhausen. Ancora oggi la musica di questi due autori così diversi fra loro riesce ad avvicinare un pubblico differente dai normali frequentatori della musica contemporanea, un pubblico mediamente più giovane. La ragione sta nella forza delle loro idee, non in una generica novità delle loro opere. Non mi sembra che alcune tendenze attuali abbiano un forte pensiero che le originano. Non credo basti “ibridare” linguaggi diversi: i neoromantici degli anni ’80 non hanno avvicinato alla musica contemporanea i frequentatori del repertorio del passato e non credo che ibridando linguaggi si conquisti oggi un pubblico pop.

Qual è a suo avviso il nucleo fondante dell’attività di un docente di composizione dei nostri giorni? C’è un’esigenza di trasformazione da poter indicare alle scuole di composizione dei conservatori italiani ed europei?

Può insegnare con profitto solo chi ha un pensiero forte che sostiene il suo fare, un pensiero che lo ossessiona e attorno a cui ruotano le sue speculazioni; un pensiero che scaturisce da domande senza riposta e che si rinforza nei tentativi continuamente reiterati di rispondere. È difficile che l’allievo di un tale maestro faccia proprie le domande del maestro e le sue risposte. Ma è molto più probabile che la conoscenza di quelle domande e dei comportamenti attuati per dare delle riposte porti a galla le proprie domande, se ce ne sono, e renda capaci di cercare proprie risposte. Può sembrare strano, ma è possibile scrivere musica senza aver elaborato un pensiero teorico che guidi tutte quelle scelte che determinano uno stile, un’estetica, che modificano il linguaggio. Ed è possibile persino insegnare senza quel pensiero. È sufficiente abbracciare un pensiero esistente, acquisire un buon artigianato e sfruttare al meglio la propria  creatività. In questo modo sono state scritte e ancora vengono create partiture anche di successo e si può insegnare a comporre. Ma forse non è più necessario avere grandi Maestri nelle scuole di composizione e in verità non ci sono mai stati solo grandi Maestri. È importante che le scuole di composizione posano offrire un ventaglio di informazioni il più vasto e vario possibile e che sappiano accompagnare i giovani compositori nel delicato passaggio dallo studio all’attività professionale.

Può dirci il titolo del suo prossimo lavoro e, se previsto, dove e quando potremo ascoltarlo?

Purtroppo in questi ultimi anni ho avuto poco tempo per scrivere. Ho scelto di occuparmi delle “domande” – per tornare al punto precedente – dei giovani compositori, e di rispondere alle mie domande attraverso occupazioni diverse dal comporre: la ricerca, lo studio e l’esecuzione di quello che viene scritto oggi. Però ho un progetto a cui sto lavorando, legato a un testo letterario che ho incontrato in questi ultimi mesi, la tetralogia “Dentro le mie mani le tue” di Marosia Castaldi, che già ha avuto riflessi nell’ultimo mio pezzo per la Biennale di quest’anno, Il blu del tuono, ma non so dire quando lo terminerò.

Grazie Maestro, arrivederci alle prossime iniziative del Divertimento Ensemble.

Ringraziamo per la collaborazione la dott.ssa Emanuela Caldirola, Responsabile Ufficio Stampa Settore Danza Musica Teatro della Fondazione La Biennale di Venezia, e la dott.ssa Raffaella Valsecchi, Ufficio stampa Divertimento Ensemble

 
64° Festival Internazionale di Musica Contemporanea
Venezia, dal 25 settembre al 4 ottobre 2020

INFO:
Homepage Biennale Musica 2020

Francesco Rampichini