Foto di scena: Aminta, regia di Antonio Latella, Triennale Teatro dell'Arte di Milano dal 17 al 20 gennaio 2019
Foto di scena: Aminta, regia di Antonio Latella, Triennale Teatro dell'Arte di Milano dal 17 al 20 gennaio 2019
Foto di scena: Aminta, regia di Antonio Latella © Brunella Giolivo

Dopo il debutto al Lauro Rossi di Macerata nel novembre scorso per il progetto di rinascita culturale post-sisma sostenuto da MiBAC e Amat (Associazione marchigiana attività teatrali), la compagnia “stabilemobile” del regista Antonio Latella, direttore del Teatro de La Biennale di  Venezia, ha portato in scena dal 17 al 20 gennaio sul palco del Teatro dell’Arte di Milano la favola pastorale del poeta e cavaliere sorrentino

Era lirico, il tono di questa “favola boschereccia” in versi che elogia l’età dell’oro e la tradizione arcadica nello specchio del Ducato di Ferrara, «città in riva al fiume»: il pastore Aminta s’innamora, non ricambiato, della ninfa mortale Silvia. L’amica Dafne gli consiglia di recarsi alla fonte dove è solita bagnarsi e dove un satiro tenta di violarla. Aminta la salva, ma lei fugge senza ringraziarlo. Tra lupi, dirupi e suicidi, la vicenda procede sino al coronamento dell’amore tra i due.

Linda Dalisi, che ha curato la drammaturgia, distilla e ricompone dall’opera in cinque atti di Torquato Tasso un florilegio di sequenze ben orchestrate, con qualche inserto adultero nella seconda parte.
La scena, di Giuseppe Stellato, è cinta da un binario circolare in legno su cui orbita, impercettibile come una luna, un faro di scena: sta, eppur si muove. Un omaggio a Galileo, coevo del Tasso? Geniale.

Questo ciclope muto circumnaviga e scruta i profili cangianti degli attori, a loro volta mossi in rigorose geometrie tracciate da Francesco Manetti attorno a tre aste microfoniche: i valentissimi Michelangelo Dalisi, Emanuele Turetta, Matilde Vigna, Giuliana Bianca Vigogna.
Mossi a far che? Non un gioco da in-fanti – senza cioè l’uso della parola – quello l’hanno eccome nel dividersi i nove “Interlocutori” prescritti. Se infatti altissimo è il testo del Tasso, altrettanto lo è il tasso di testo, rifraseggiato in viluppi di acrobazie pneumatiche.
Allora è il pubblico che torna infante, si afferra a boe di senso emerse tra endecasillabi e settenari indocili per il teatro d’oggi, virati in streamflow. È un assalto alla parola, non indugio estetizzante, ricerca modale, ma lame penetranti con amabile ferocia nel seno della poesia.

La performance cadenzale squassa la sclerotizzazione dell’ascolto, frange la lingua in mimemi sonori spesso così levigati e stretti da non lasciar cogliere il fiore del significato.
Se come scrive Platone «ogni atto per cui qualcosa passa dal non essere all’essere è poiesis» (Simposio), qui buca con lance improvvise l’arazzo ritmico dei versi. E non mirano al pubblico ammaliziato del ‘500, che s’intendeva e non voleva smascherar la maschera, ma feriscono noi, postumi increduli di quanto questa cronaca in una lingua estinta ci rifaccia simili.

L’avvio di Dalisi (Tirsi/Tasso/Amore) subito in medias res statuisce le regole stilistiche. Dopo minuti di messa a fuoco della percezione stacca un primo scambio con Giuliana Bianca Vigogna (Dafne, compagna di Silvia). Matilde Vigna (Silvia) è di spalle, non vuole saperne.
Nel crescendo conclusivo del primo atto la voce di Aminta – il bravissimo e icastico Emanuele Turetta – rompe e si sdoppia in un ambiguo strip-tease a più mani: straziante e bifronte, nell’enfasi di un cardioide pulsante compie la metamorfosi nelle parole rivelatrici “io satiro”.

Mentre il faro prosegue la sua ineffabile eclittica, il Coro previsto dall’epos trae dal madrigale di Monteverdi (altro coevo del Tasso) “Lamento della ninfa”, la parte centrale “Amor, dov’è la fé” originale per soprano, 2 tenori, basso e basso continuo. Iterando però solo la monodica ostinazione del tetracordo dorico discendente, scandito nel monologo di Aminta da un basso scabro che annuncia l’incursione goth-rock del secondo atto.
Qui Silvia si gira, urla con rabbia versi di P.J. HarveyLecca le mie gambe, io sono in fiamme, lecca le mie gambe di desiderio»), percuotendo efficacissima una Fender stratocaster spazza via ogni residuo di retorica arcaica, rivelandoci che la nostra può esser peggiore.
Siamo confusi. La stratificazione si complica. Nel suo abito dorato Dalisi si fa satellite, percorre il binario/limite in senso antiorario temperando fino alla feccia una matita: è quella del poeta, il tempo consumato, l’amore disponibile, il dio che si disgrega con il suo creatore umano.
Nel piano luci finemente e inesorabilmente dosato di Simone De Angelis, il ciclope si estingue.
Il buio ora totale trattiene il pubblico che, fatto ricomparire, acclama.

Antonio Latella ridesta un mito e i suoi archetipi senza tempo, cogliendo nel segno ciò che Luca Ronconi esprimeva sulla sua messa in scena del ’94: «scavare nelle pieghe di verità che molto spesso non si caratterizzano nella situazione drammaturgica».

«Chi crederia che sotto umane forme / e sotto queste pastorali spoglie / fosse nascosto un dio?».

(Francesco Rampichini – www.musikatelier.it)

Produzione stabilemobile
in collaborazione con AMAT e Comune di Macerata

Aminta di Torquato Tasso
Con Michelangelo DalisiEmanuele TurettaMatilde VignaGiuliana Bianca Vigogna
Drammaturga: Linda Dalisi
Regia di Antonio Latella

Scene: Giuseppe Stellato
Costumi: Graziella Pepe
Musiche e suono: Franco Visioli
Luci: Simone De Angelis
Movimenti: Francesco Manetti
Assistente alla regia: Francesca Giolivo
Production: Brunella Giolivo
Management: Michele Mele

Milano, Triennale Teatro dell’Arte, via Alemagna 6
Dal 17 al 20 gennaio 2019
www.triennale.org/teatro